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Missione a Bonn 19, 20 e 21 Luglio 2001
Nei giorni 19-21 luglio 2001
una delegazione parlamentare (III e VIII Commissione della Camera dei Deputati) ha
partecipato ai lavori della Conferenza delle Parti di Bonn (sessione III, parte II) della
Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 6 bis). La
Conferenza delle Parti è la sede in cui si svolge il negoziato internazionale per la
esecuzione degli impegni per la riduzione delle emissioni dei gas serra,
impegni che (soprattutto nella Conferenza del 1997 che ha portato alla firma de Protocollo
di Kyoto) hanno assunto un profilo definito in termini quantitativi, ma che ancora non
costituiscono un vincolo giuridicamente rilevante in quanto il Protocollo non è stato
finora ratificato da un numero sufficiente di Stati.
Pur trattandosi di un
negoziato condotto dai rappresentanti dei governi, tuttavia per il rilievo politico dei
temi affrontati, alcuni Paesi -fra cui lItalia- hanno ritenuto di inviare anche
delegazioni parlamentari (così come lAustria, la Germania, lOlanda, la
Norvegia, la Nuova Zelanda, lUcraina, otre ad una numerosa delegazione del
Parlamento Europeo).
Alla Conferenza, come già
alla precedente sezione del COP 6, svoltasi allAja nel Novembre 2000, ha inoltre
partecipato GLOBE (Global Legislators Organization for a Balanced Environment),
organizzazione fondata nel 1989 per rafforzare la cooperazione internazionale tra i
parlamentari sulle questioni ambientali. La Delegazione parlamentare italiana ha quindi
potuto seguire un seminario parallelo alla Conferenza organizzato da GLOBE Europe dedicato
alla diffusione di tecnologie pulite nei Paesi in via di sviluppo.
Contrariamente alla
precedente sessione dellAja, nella Conferenza di Bonn è stato raggiunto un accordo
che riapre la possibilità di fare approdare il protocollo di Kyoto a risultati concreti.
Dei 39 Paesi
industrializzati che, ai sensi del protocollo, dovranno accordarsi per la riduzione delle
emissioni responsabili dei gas serra, ormai la maggioranza sembra aver trovato, grazie ai
negoziati svoltisi a Bonn, una intesa che potrebbe costituire una base per la prossima
ratifica.
Il Protocollo, infatti,
aveva indicato obiettivi specifici a ciascuno dei 39 Paesi e previsto meccanismi di
flessibilità, sostitutivi o integrativi rispetto al semplice taglio delle missioni
inquinanti. Negli ultimi mesi, si era tuttavia determinata una divergenza che opponeva da
un lato i Paesi dellUE, più favorevoli a proseguire sulle linee già tracciate dal
Protocollo, e dallaltra USA e Australia, convinti delle opportunità di rivedere
alcuni capisaldi, in primo luogo lorizzonte temporale entro cui raggiungere gli
obiettivi.
Di fronte al rischio di uno
stallo i Paesi dellUE hanno mirato a coinvolgere in un accordo alcuni importanti
interlocutori: Giappone e Canada, che pur avendo preso una posizione di rifiuto netto del
Protocollo, avevano tuttavia espresso forti perplessità.
Risultato questo che
costituisce la premessa per ulteriori accordi, auspicabilmente allargati anche agli USA,
che potranno essere raggiunti nei prossimi appuntamenti di Marrakech (autunno 2001) e
Johannesburg (2002), fino alla ratifica da parte dei Paesi industrializzati e quindi
alleffettiva entrata in vigore degli accordi. Gli stessi Stati Uniti, che pure hanno
confermato a Bonn la più recenti posizioni di scetticismo sul quadro complessivo
delineato nel protocollo e quindi non hanno contribuito alla elaborazione del documento
finale, hanno tuttavia seguito tutte le fasi dei negoziati.
Obiettivo della Conferenza
di Bonn, indicato nel principale testo preparatorio Consolidated negotiating
text proposto dal presidente Jan Pronk, Ministro dellAmbiente olandese il 18
Giugno 2001, era quello di definire in concreto i meccanismi di flessibilità. Inoltre la
trattativa aveva ad oggetto gli impegni finanziari da assumersi da parte di ciascuno dei
partecipanti al negoziato per il raggiungimento degli obiettivi e, in particolare, per il
trasferimento di tecnologie avanzate, a basse emissione, nei Paesi in via di sviluppo.
Infine, il terzo tema della trattativa era costituito dalla possibilità di raggiungere
gli obiettivi indicati dal Protocollo non solo attraverso una riduzione delle emissioni,
ma anche attraverso operazioni di riforestazione equivalenti in termini di saldo
complessivo di emissioni inquinanti.
Laccordo raggiunto il
23 Luglio Decision 5/CP.6. Implementation of the Buenos Sires Plan of Action,
prevede in primo luogo listituzione di tre fondi (per il cambiamento climatico, per
I Paesi meno sviluppati, per ladeguamento al Protocollo di Kyoto) a cui sono
chiamati a partecipare I Paesi firmatari della Convenzione ed I paesi che ratificheranno
il Protocollo.
Il secondo elemento
dellaccordo è costituito dalla definizione delle regole per il ricorso ai
meccanismi di flessibilità (emission trading, clean developmente mechanism,
joint implementation), cioè delle modalità di sostituzione dei tagli alle emissioni con
crediti di emissione acquisiti, ad esempio, attraverso investimenti
climate-friendly in Paesi in via di sviluppo. Fra questi meccanismi,
particolare rilevanza assumerà quello del ricorso ai sinks, cioè ai serbatoi
di ossigeno rappresentati dalle foreste.
La Conferenza di Bonn ha
prodotto un Accordo sul funzionamento di questo meccanismo compensativo riassunto in una
tabella in cui, per ognuno dei 39 Paesi industrializzati (tranne gli USA che non hanno
partecipato alla stesura del documento), viene indicato un limite massimo di ricorso ai
sinks (e di corrispondente riduzione dei tagli).
Infine, laccordo ha
definito quelli che saranno gli strumenti di controllo delleffettivo rispetto dei
vincoli assegnati a ciascun Paese (cd compliance mechanism). Il documento non prevede un
vero e proprio regime sanzionatorio, ma piuttosto un sistema di vigilanza e di assistenza
ai Paesi che hanno difficoltà a raggiungere gli obiettivi, gestito da un Comitato
internazionale di vigilanza. In caso di mancato raggiungimento entro la scadenza del primo
periodo (2012), i nuovi obiettivi di riduzione per il periodo successivo saranno
aumentati, per il Pease che non avrà rispettato i limiti previsti, di u fattire di 1,3.
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Missione di una delegazione della Camera dei deputati
in Medio Oriente
(6-13 gennaio 2002)
Una Delegazione della Camera dei Deputati, guidata
dal Presidente della III Commissione Affari Esteri, Onorevole Gustavo Selva, e composta
dagli Onorevoli Edouard Ballaman (Lega Nord), Marco Boato (Misto-Verdi), Rodolfo De
Laurentiis (Ccd-Cdu), Giorgio La Malfa (Misto), Ramon Mantovani (Rif. Comunista), Franco
Monaco (Margherita), Dario Rivolta (FI), Valdo Spini (DS), Marco Zacchera (AN), si è
recata in missione, dal 6 al 13 gennaio 2002, in Egitto, Giordania, Siria, Libano,
Territori dell'Autonomia palestinese e Israele, per approfondire i temi e le prospettive
del processo di pace nelle aree interessate, a seguito dell'approvazione da parte della
Camera il 19 dicembre 2001 della mozione n. 1-00038 Vito ed altri, avvenuta
all'unanimità, salvo due astensioni.
La Delegazione ha effettuato i seguenti incontri ufficiali a livello parlamentare e
governativo:
in Egitto:
Segretario Generale della Lega Araba, Amr Moussa;
Ministro degli Affari Esteri, Ahmed Maher;
Presidente dell'Assemblea del Popolo, Ahmed Fathy Sorour (alla presenza del Presidente
della Commissione Affari Esteri, El Faki);
in Giordania:
Ministro degli Affari Esteri, Abdulillah Al-Khatif;
Presidente del Senato, Zeid Al-Rifai;
in Siria:
Presidente dell'Assemblea del Popolo, Abdel Qader Qaddoura (alla presenza del Presidente
della Commissione Affari Esteri, Shaker Aseyd);
Presidente della Repubblica, Bashar Al-Assad;
in Libano:
Presidente della Repubblica, Emile Lahoud;
Presidente dell'Assemblea Nazionale, Nabih Berri;
Ministro degli Affari Esteri, Mahmoud Hammoud;
nei Territori dell'Autonomia palestinese:
Presidente del Consiglio legislativo palestinese Ahmed Qurie;
Ministro della cultura e dell'informazione, Yasser Abed Rabbo;
Presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Yasser Arafat;
in Israele:
Presidente della Knesset, Avraham Burg;
Onorevoli Noemi Blumenthal (Likud), Colette Avital (Partito Laburista), Noemi Chazan
(Meretz);
Ministro degli Affari Esteri e Vice Primo Ministro, Shimon Peres.
La Delegazione ha inoltre incontrato:
in Giordania, il Principe ereditario della Casa Haschemita, Hamza;
in Libano: Walid Jumblatt (leader druso), l'Onorevole Misbah Ahdab, deputato di Tripoli e
Presidente dell'Associazione di amicizia Libano-Italia, l'Onorevole Mohammad Raad,
Capo-gruppo parlamentare di Hezbollah; la giornalista Scarlett Haddad, la dottoressa
Nehmat Kanaan, Direttore generale del Ministero per gli Affari sociali, il rappresentante
dell'ONU, Staffan De Mistura;
a Gerusalemme, il professor Sari Nusseibeh, Rettore dell'Università araba di Gerusalemme,
il Custode di Terra Santa, Monsignor Giovanni Battistelli, ed il Patriarca di Gerusalemme
Michel Sabbah;
nei Territori dell'Autonomia palestinese, il Sindaco di Betlemme, Hanna Nasser. Una sosta
è stata effettuata al campo profughi di Aida, gestito dall'UNRWA.
Nel corso della visita in Israele, la Delegazione ha
reso omaggio al Memoriale di Yad Va-Shem.
Egitto (7 gennaio 2002)
Il Segretario Generale della Lega Araba, Amr Moussa,
nell'esprimere apprezzamento per la posizione italiana sul processo di pace in Medio
Oriente ribadita in sede parlamentare, ha denunciato la crescita della violenza nel quadro
del nuovo ordine mondiale delineatosi all'indomani dell'11 settembre. Ha quindi osservato
che, mentre alla caduta del muro di Berlino (1989) si erano profilati scenari di pace
nella regione e si era avviata con molte speranze la cooperazione euromediterranea, alla
fine del secolo si registra piuttosto un fallimento, a fronte del fatto che esiste nel
mondo ormai un'unica superpotenza.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, ha rilevato che l'obiettivo della pace giusta è
ostacolato dall'atteggiamento del Governo israeliano di Ariel Sharon, che è convinto di
poter risolvere la questione con il ricorso alla forza e non teme di poter essere fermato
oppure condannato dalla comunità internazionale. Ha quindi dubitato del fatto che lo
Stato ebraico sia disponibile ad accettare la creazione dello Stato palestinese, rilevando
la mancanza di una prospettiva globale e la parzialità del tentativo di mediazione
statunitense portato avanti dal generale Zinni, in quanto la sicurezza non è sufficiente
a garantire la pace.
In tale contesto - a giudizio del Segretario Generale - l'Unione europea non può
limitarsi a pur importanti dichiarazioni (come quella annessa alle conclusioni dell'ultimo
Vertice di Laeken), ma deve mettere in atto una diplomazia attiva nei confronti degli USA,
spesso troppo allineati sulle posizioni israeliane. Non si tratta, a suo avviso, di fare
timide richieste, ma di assumere una posizione forte (ad esempio, cominciando a non
riconoscere i prodotti israeliani ricavati dagli insediamenti nei territori occupati),
senza fare più soltanto affermazioni ad uso dei mass-media.
All'Unione europea Amr Moussa ha, inoltre, rimproverato un calo di entusiasmo ed un
rallentamento operativo nel partenariato euromediterraneo, dovuto forse all'impegno
richiesto per la realizzazione della moneta unica e l'allargamento ad Est. Ribadita la
peculiarità del "processo di Barcellona", in cui gli aspetti economici si
fondono con quelli politici e culturali, l'interlocutore arabo ha auspicato lo sviluppo
della dimensione popolare e parlamentare del partenariato nell'intento di acquisire una
percezione comune della sicurezza mediterranea.
Infine, ha denunciato la campagna denigratoria nei
confronti dell'Islam seguita all'11 settembre, lamentando che ci si aspettava più
comprensione da parte europea, mentre ci sono state alcune prese di posizione anche ad
alto livello in tutt'altro senso. La lotta al terrorismo internazionale, a suo avviso, si
deve perseguire invece soprattutto attraverso il dialogo tra le civiltà.
Il Presidente Selva, nel rispondere al Segretario
Generale della Lega Araba, ha condiviso l'invito a passare dalle parole ai fatti,
auspicando un più equilibrato sistema di pace tra i popoli. Concordando con l'analisi
della difficile situazione medio-orientale, ha ricordato che non si fanno progressi senza
sacrifici o anche fallimenti. Ribadito il favore alla creazione di uno Stato palestinese
che non sia ostaggio di Israele, i cui confini devono tuttavia essere garantiti
internazionalmente, Selva ha assicurato che l'Europa farà di più, anche in virtù delle
presidenze mediterranee che si profilano tra il 2002 ed il 2003, ed in particolare di
quella italiana. Del resto, l'integrazione europea, che ha condotto alla pace dopo la
seconda guerra mondiale, potrebbe costituire un esempio per lo sviluppo dell'area
mediterranea e medio-orientale.
Il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica
Araba d'Egitto, Ahmed Maher, ha espresso il suo apprezzamento per la posizione italiana
assunta in sede parlamentare, ed ha sottolineato come il processo di pace in Medio Oriente
alterni speranza e frustrazione. Oggi, tuttavia, ritiene che la politica israeliana non
sia adeguata e non corrisponda alle misure che il leader palestinese, Yasser Arafat, ha
preso per combattere la violenza.
Ha ritenuto infatti responsabilità del popolo israeliano la mancata percezione del fatto
che la strategia di Sharon, nonostante le promesse elettorali, non ha portato né
sicurezza né pace, nella convinzione che la sola soluzione possibile stia nel rispetto di
entrambe le parti e quindi nella creazione dello Stato palestinese.
Ha quindi espresso l'opinione per la quale sia importante il ruolo degli USA e dell'Unione
europea per influenzare Israele e per rimettere il processo di pace sulla via corretta.
Quanto al terrorismo internazionale, Maher ha richiamato la lunga esperienza del suo Paese
che in passato lo ha combattuto da solo, invitando comunque ad indagarne le vere ragioni.
L'Egitto ritiene essenziale che la lotta al terrorismo sia condotta nel quadro della
legalità internazionale, che le azioni militari siano limitate alle aree di cui sia stata
provata la responsabilità e che siano sempre evitate vittime civili. A queste condizioni,
ha precisato come sia stata prestata ampia collaborazione da parte dei servizi segreti,
sia stato consentito il passaggio del canale di Suez nonché il sorvolo dello spazio
aereo. Il Ministro egiziano ha quindi rilanciato la proposta del Presidente Mubarak di una
Conferenza internazionale per la lotta al terrorismo e richiamato all'esigenza di una
maggiore severità, lamentando che spesso i terroristi sono stati protetti dal diritto
d'asilo.
Maher ha, inoltre, rimarcato la grande sfida di modernizzazione cui il suo Paese è
chiamato in relazione all'Accordo di associazione con l'Unione europea in corso di
ratifica, per cui conta sull'aiuto italiano. Rivolto un omaggio al Ministro degli Esteri
dimissionario, si è infine detto certo della continuità della politica italiana in senso
favorevole all'Egitto.
Il Presidente Selva, reso omaggio al Presidente
Mubarak anche a nome del Presidente Ciampi, ha espresso apprezzamento per gli sforzi
egiziani verso il progresso confermando il sostegno italiano a prescindere
dall'avvicendamento al Ministero degli affari esteri. Con riferimento alla crisi
medio-orientale, ha riaffermato il diritto di Israele a frontiere sicure come
corrispettivo della nascita dello Stato palestinese. Una Conferenza internazionale per il
Medio Oriente - come auspicato in sede parlamentare - potrebbe dare un utile contributo.
Quanto alla lotta al terrorismo, ha condiviso il richiamo alle Nazioni Unite,
riaffermandone i grandi ideali di libertà, democrazia e giustizia sociale.
All'Onorevole Valdo Spini, intervenuto per
richiamare la connessione tra la lotta al terrorismo internazionale e la soluzione della
questione palestinese e per ribadire la disponibilità dell'Italia a prendere parte al
monitoraggio internazionale delle aree di crisi, Maher ha risposto innanzitutto che alla
base del terrorismo vi è la disperazione di tanti giovani che sono pronti a morire
perché non hanno di che vivere. Occorrerebbe, invece, il dialogo tra le civiltà, senza
però che si risolva in una moda e tenendo presente che l'obiettivo è una migliore
conoscenza reciproca e non il raggiungimento di una posizione unificata. Quanto alla
presenza internazionale, ne ha riaffermato la necessità a fronte delle accuse reciproche
tra le parti ed ha apprezzato il contributo italiano.
Riguardo alla cooperazione bilaterale in materia di
immigrazione, auspicata dall'Onorevole Marco Zacchera perché i permessi di soggiorno
siano rilasciati sulla base di un'effettiva preparazione all'inserimento nella nuova
realtà, il Ministro egiziano ha assicurato che i contatti sono a buon punto.
Rispondendo all'Onorevole Marco Boato, che
sollecitava la ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale, Maher ha
dichiarato che l'iter parlamentare è in corso.
Su domanda dell'Onorevole Ramon Mantovani, il
Ministro egiziano ha infine chiarito la posizione dell'Egitto nella coalizione
anti-terrorismo: il suo Paese non è parte integrante della coalizione stessa in qualità
di alleato, ma ha espresso il suo consenso all'iniziativa, restando comunque sin
dall'inizio contrario all'estensione del conflitto soprattutto nei confronti di Stati
arabi. Del resto, secondo Maher, il tentativo di provare il coinvolgimento dell'Iraq è
fallito (altra questione è il contenzioso con l'ONU di quel Paese); la Somalia è
tragicamente divisa, ma i positivi segnali di riunificazione sarebbero compromessi proprio
da un intervento militare; a sua volta, lo Yemen sta in effetti collaborando alla lotta al
terrorismo. L'estensione del conflitto comporterebbe conseguenze gravissime sull'opinione
pubblica araba e destabilizzerebbe l'intera regione. Pur temendo che negli USA ci sia chi
vuole cogliere l'occasione per liquidare alcuni conti in sospeso, Maher ha concluso
esprimendo fiducia nella saggezza di Bush e di Powell.
Il Presidente dell'Assemblea del Popolo della
Repubblica Araba d'Egitto, Ahmed Fathy Sorour, dopo che il Presidente Selva ha illustrato
la mozione approvata dalla Camera ed ha garantito la continuità della politica estera
italiana, ne ha giudicato estremamente positivo il contenuto, apprezzando il ruolo
dell'Italia per la pace, che affonda le sue radici nella civiltà romana, ribadendo la
storica amicizia italo-egiziana. A suo avviso, tuttavia, pur condannando gli atti di
violenza, occorre distinguere tra terrorismo e resistenza, in quanto Israele occupa i
territori in violazione delle risoluzioni dell'ONU, sicché la resistenza sarebbe lecita
purché colpisca i militari e non i civili. Anche a questo proposito ha comunque precisato
che non si possono considerare tali i coloni che sono in realtà degli occupanti armati.
Quanto agli attentati ai civili nella stessa Israele, Sorour ha dichiarato di condannarli,
ma di non poter fare a meno di spiegarli quali atti di rappresaglia, affermando che
sarebbero stati gli israeliani a cominciare, procedendo ad esecuzioni extragiudiziali.
Il Presidente dell'Assemblea del Popolo ha quindi accusato Israele di stare approfittando
del contesto internazionale per mettere sullo stesso piano la lotta ai palestinesi con la
lotta al terrorismo in Afghanistan. A suo avviso, peraltro, il terrorismo non può essere
combattuto solo sul piano militare, perché alla base vi è l'oppressione e la sofferenza,
di cui il popolo palestinese costituisce un esempio essendo privato dei suoi diritti
legittimi (ha quindi citato il caso della Cecenia, che ritiene diverso in quanto si
tratterebbe di una provincia di uno Stato sovrano, in cui sarebbe in atto una ribellione).
Si devono, dunque, eliminare le cause politiche del terrorismo.
Rispondendo all'Onorevole Boato in relazione alla
ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale, Sorour ha assicurato che il
relativo iter sarà veloce e che anche il Governo egiziano è favorevole.
Ritornando sul tema della lotta al terrorismo sulla
base di una domanda dell'Onorevole Monaco, l'interlocutore egiziano ha affermato che il
suo popolo è favorevole, poiché ne è stato vittima (il suo predecessore è morto in un
attentato, come del resto il Presidente Sadat). L'Assemblea ha infatti votato importanti
misure legislative in tal senso e sarebbe oltremodo opportuna, come auspicato dal
Presidente Mubarak, una Conferenza ed una Convenzione internazionale. Tuttavia, Sorour ha
denunciato che tra gli arabi è diffusa una sensazione di rabbia ed ingiustizia per il
fatto che tale lotta si trasformi in una persecuzione anti-musulmana: c'è un'evidente
disparità nel considerare terroristi i palestinesi e non gli israeliani. Nel precisare
che l'Islam è invece una religione che invita alla convivenza, ha inteso sottolineare che
coloro i quali lottano per una causa non possono essere confusi alla stregua dei
criminali: il fatto che Milosevic sia sotto processo non comporta che lo siano tutti i
suoi concittadini o correligionari. Quanto a Bin Laden, si tratterebbe di un terrorista
che si è autoproclamato principe dei fedeli (fu lui ad architettare il bombardamento
dell'Ambasciata egiziana in Pakistan).
La maturità del popolo egiziano è stata confermata
dal Presidente della Commissione Affari Esteri, El Faki, secondo il quale la violenza è
rifiutata e non c'è nessuna simpatia per Bin Laden, ma è percepita dall'opinione
pubblica la disparità di trattamento da parte della comunità internazionale. Ci sarebbe
comunque compattezza tra cittadinanza e classe dirigente, in particolare intorno al
Presidente Mubarak.
Rispondendo all'Onorevole Rivolta sul terrorismo
interno all'Egitto, Sorour ha quindi precisato che i Fratelli Musulmani avevano
l'obiettivo di rovesciare il regime e di sostituirvisi e che sono stati favoriti anche se
indirettamente da molti Paesi occidentali ad esempio con il diritto d'asilo.
Sull'eventualità che ci siano comunque oggi governi
che proteggono i terroristi, oggetto di una domanda dell'Onorevole Ballaman, il Presidente
dell'Assemblea del Popolo si è espresso negativamente. A suo avviso Saddam Hussein ha
mire espansioniste interne al mondo arabo e non sostiene il terrorismo internazionale;
peraltro gli USA non sarebbero intervenuti contro di lui per il Kuwait, se non avesse
minacciato anche Arabia Saudita ed Israele. Quanto allo Yemen, i problemi deriverebbero
piuttosto dalle divisioni tribali e dalla debolezza della leadership. In Algeria, il
terrorismo sarebbe di natura interna e non internazionale (in passato si era sospettato
addirittura un appoggio della Francia), mentre la situazione in Sudan sarebbe migliorata
dopo l'eliminazione di Turabi.
Ha quindi chiarito che l'Egitto è comunque contrario ad ogni intervento contro qualsiasi
Paese arabo e che un attacco all'Iraq sarebbe percepito come un aiuto ad Israele.
In conclusione, il Presidente Selva ha auspicato
l'intensificazione delle iniziative parlamentari per il processo di pace ed il Presidente
Sorour ha comunicato di aver fatto una proposta in tal senso al Parlamento europeo.
Giordania (8 gennaio 2002)
In apertura dell'incontro con il Ministro degli
Esteri del Regno hashemita di Giordania, Abdulillah Al-Khatif, il Presidente Selva ha
manifestato l'interesse italiano a conoscere opinioni e problemi del processo di pace,
esprimendo grande solidarietà alle aspettative del popolo palestinese, nel quadro della
garanzia internazionale per lo Stato di Israele.
Al-Khatif ha, quindi, dichiarato che la questione
palestinese è la principale ma non la sola ad affliggere la regione. La Giordania ad
esempio si confronta anche con quella irachena. L'insicurezza ha poi gravi conseguenze sul
piano economico e sociale. Il nuovo Re è particolarmente impegnato a risolvere questi
problemi, ha promosso lo sviluppo economico con il sostegno del FMI, l'adeguamento del
quadro legislativo, la democratizzazione della vita politica (le prossime elezioni si
terranno alla fine dell'estate). Il sovrano si è mosso anche per la pace tra palestinesi
ed israeliani, ma basta un nulla per ritornare al punto di partenza.
A suo avviso, Israele non ha rispettato gli accordi preferendo il ricorso alla forza e
provocando perciò l'intifada che è nata dalla delusione dei palestinesi. Occorrerebbe
invece una soluzione politica per arrivare alla pace, non basta la sicurezza ("il
processo di pace è un mezzo e non un fine"). Più che pensare ad altre iniziative,
sarebbe oggi prioritario dare attuazione al Rapporto Mitchell ed al Piano Tenet.
Ribadito che l'obiettivo fondamentale è la proclamazione dello Stato palestinese, il
Ministro giordano ha poi ammesso che in effetti da entrambe le parti c'era chi non credeva
agli accordi quando furono sottoscritti, ma la spirale di morte e sofferenza e la
conseguente crisi sociale dovrebbero ormai persuadere tutti ad uscire dal circolo vizioso.
In questo senso, diventa importante il ruolo della comunità internazionale ed in
particolare dell'Unione europea, che può esercitare pressioni anche sugli USA.
Quanto all'Iraq, Al-Khatif ha auspicato la fine dell'embargo che colpisce soltanto i
cittadini ed alimenta un senso di frustrazione in tutta l'area.
La Giordania è comunque intenzionata a promuovere una nuova fase di collaborazione
regionale, tenendo presente il modello europeo. Nuove tensioni e pressioni, secondo il
Ministro, provengono dal terrorismo internazionale che il suo Paese condanna senza riserve
avendolo subito in passato. L'esercito giordano è infatti in Afghanistan per un supporto
sia militare sia umanitario. L'Europa, cui il mondo arabo è legato dalla storia e dalla
geografia indissolubilmente, è quindi ancor più un partner fondamentale.
All'Onorevole Spini, che ha ribadito la volontà
dell'Unione europea di contribuire realmente al processo di pace ed ha auspicato una
risposta veloce alla crisi, Al-Khatif ha risposto sottolineando il ruolo moderatore della
Giordania, che paga il prezzo del conflitto soprattutto sul piano economico. Occorrerebbe
creare, allora, a suo avviso, un clima propizio agli sforzi dei mediatori Solana e Zinni,
cercando di superare le difficoltà insorte con il sequestro della nave Karin-A con
l'accertamento della verità ad opera di una parte esterna. Anche se gli USA hanno
un'influenza maggiore su Israele, il ruolo dell'Europa resta comunque importante.
Sempre all'Onorevole Spini, che ha sollevato il problema della scarsezza di acqua nella
regione, il Ministro giordano ha fatto presente che la situazione è peggiorata e che si
tratta del vero problema da affrontare.
Rispondendo all'Onorevole Boato sulla lotta al
terrorismo e l'eventuale estensione del conflitto, Al-Khatif ha confermato l'impegno
giordano, ma ha precisato che la forza non è la sola arma, ma occorre un approccio
globale. Altrimenti, si rischia di dividere la coalizione e di fare un favore ai
terroristi. È importante invece, a suo avviso, cooperare per prosciugare le loro risorse
finanziarie ed eliminare le cause dell'ingiustizia e della sofferenza che sono alla base
del fenomeno e del reclutamento dei giovani.
Quanto alla ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale, sollecitata dallo
stesso Onorevole Boato, il Ministro ha ricordato che la Giordania è stato il primo Paese
arabo a firmano e che l'iter è in corso.
Riprendendo la questione dell'embargo all'Iraq
richiamata dall'Onorevole Rivolta e dall'Onorevole Ballaman, pur precisando di non poter
parlare a nome degli iracheni, Al-Khatif ha dichiarato che sembra possibile un ritorno
degli ispettori dell'ONU, il cui comportamento in passato non è stato considerato
equanime, proprio a fronte della fine dell'embargo. Quanto all'applicazione della
risoluzione oil for food, ne ha lamentato l'eccessivo formalismo. In conclusione, a suo
avviso, l'embargo avrebbe non solo costi economici ma anche gravissimi effetti
psicologici, suscitando un sentimento di ingiustizia nel popolo iracheno, soprattutto fra
i giovani, che può tramutarsi in odio nei confronti dei Paesi vicini e del mondo intero.
Particolarmente alto sarebbe poi il prezzo pagato dalla Giordania, che era il primo
partner commerciale iracheno.
Rispondendo agli stessi Onorevoli Rivolta e Ballaman
sulla componente palestinese all'interno della Giordania e sulla questione del diritto al
ritorno, il Ministro ha ricordato le vicende storiche della Cisgiordania e della
Transgiordania, nonché il fatto che la Giordania è un Paese fondatore della Lega Araba
in cui l'OLP rappresenta i palestinesi dal 1974. Nel 1988 la Giordania ha comunque
definitivamente rinunciato alla Cisgiordania, i cui abitanti sono tornati ad essere
palestinesi. I giordani di origine palestinese potranno a loro volta scegliere la loro
cittadinanza alla nascita del nuovo Stato. Quanto al diritto al ritorno in Israele dei
profughi, Al-Khatif ne ha riconosciuto la delicatezza ed il significato ancor più
psicologico che politico. A suo avviso, non può che rientrare nel quadro globale della
pace anche se l'esercizio della scelta va garantito.
A conclusione dell'incontro, l'Onorevole La Malfa ha
osservato che la Giordania costituisce una riserva di saggezza nella regione.
Il Presidente del Senato del Regno hashemita di
Giordania, Zeid Al-Rifai, richiamate le fraterne relazioni con l'Italia, la cui Ambasciata
fu la prima ad aprire dopo l'indipendenza del suo Paese, ha ringraziato per il sostegno
italiano al processo di pace, confermato dalla recente mozione parlamentare. Ricambiate
tali espressioni dal Presidente Selva, Al-Rifai ha osservato che la soluzione del
conflitto israelo-palestinese non può che essere politica e che occorre fermare la
violenza e tornare al tavolo negoziale: Israele non può sperare di liquidare con l'uso
della forza il diritto palestinese. L'appoggio internazionale è perciò decisivo, sia da
parte statunitense che europea: nessun accordo è stato infatti mai siglato senza di esso.
Su sollecitazione dell'Onorevole Monaco, il
Presidente del Senato ha quindi precisato che ad oggi purtroppo Israele non accetta un
ruolo più incisivo dell'Europa e preferisce trattare solo con gli USA, in quanto la lobby
ebraica influenzerebbe l'Amministrazione Bush sia nel Congresso che nei mezzi di
comunicazione. A suo avviso, per gli Stati Uniti la crisi medio-orientale sarebbe divenuta
per questa ragione una questione di politica interna e non solo di politica estera.
Tuttavia, ha sottolineato come Israele abbia anche molti interessi comuni con l'Europa,
per cui non sarebbe del tutto al riparo da pressioni (si pensi al divieto di importazione
delle merci israeliane prodotte nei territori occupati).
Secondo Al-Rifai, la Giordania è comunque il Paese che paga il prezzo più alto della
crisi, avendo la frontiera più lunga; ciononostante, Israele ha bloccato il commercio tra
le due rive del Giordano, nell'intento di acquisire il monopolio del mercato. Richiamato
il fatto che giordani e palestinesi costituiscono un unico popolo e pur convinto che si
debba guardare al futuro, ha accusato il governo israeliano di considerare facente parte
dello Stato ebraico tutta la Cisgiordania e quindi i palestinesi come stranieri presenti
sul suolo israeliano. In tal modo, però, Sharon sarebbe venuto meno alle promesse
elettorali, perché non sta garantendo la sicurezza. Dopo un'iniziale moderazione dovuta
alle pressioni internazionali, egli avrebbe mostrato la sua vera faccia all'indomani
dell'11 settembre, cercando di equiparare i palestinesi ai terroristi di Al-Qaida e di
convincerne gli USA.
Apprezzata la calma relativa seguita al discorso di Arafat del 16 dicembre 2001, il
Presidente del Senato ha invitato a dare tempestiva attuazione al Rapporto Mitchell ed al
Piano Tenet, invocando uno sforzo comune per cui Israele riconosca lo Stato palestinese e
ritiri le truppe dai territori occupati, mentre palestinesi ed arabi si rendano conto che
il ristabilimento delle frontiere anteriori alla guerra dei sei giorni del 1967 oppure il
diritto al ritorno non possono essere integralmente conseguiti. Occorrerebbe pertanto un
ridimensionamento delle richieste da entrambe le parti: insistendo sul tutto o niente, si
ottiene il niente.
Quanto al ruolo di Arafat, rispondendo ad una
domanda dell'Onorevole Zacchera, Al-Rifai ha dichiarato che è difficile stabilire la sua
reale portata. Tuttavia, appare da sostenere in mancanza di alternative sensate, mentre
Sharon vuole liberarsene per avere al suo posto un vuoto di potere.
Su sollecitazione dell'Onorevole Boato, il
Presidente del Senato ha quindi confermato la disponibilità giordana alla ratifica dello
Statuto della Corte penale internazionale. Al momento, però, essendo sciolta la Camera
Bassa, è allo studio l'eventualità che il solo Senato possa procedere alla ratifica. Il
Presidente ha colto l'occasione per illustrare il funzionamento del sistema bicamerale
giordano e comunicare che entro l'anno avranno comunque luogo le nuove elezioni.
Siria (8-9 gennaio 2002)
Dopo il saluto di benvenuto del Presidente
dell'Assemblea del Popolo della Repubblica araba siriana, Abdel Qader Qaddoura, il
Presidente Selva ha illustrato la mozione approvata dalla Camera, sottolineando il ruolo
dell'Europa come "animatore" del processo di pace insieme agli USA, anche con
riferimento all'eventualità di una nuova Conferenza internazionale nonché dell'invio di
osservatori internazionali. Ha inoltre richiamato la proposta italiana di un Piano
Marshall per la Palestina e l'esempio dell'integrazione europea.
Il Presidente siriano ha espresso attenzione ed
apprezzamento in generale sulla posizione italiana, riservandosi però alcune osservazioni
a cominciare dalla contrarietà al Rapporto Mitchell ed al Piano Tenet che rischiano di
presentarsi come alternativi agli Accordi di Madrid. A suo avviso, sia Israele sia gli USA
vogliono tornare indietro rispetto a quell'equilibrio che aveva ricevuto anche l'avallo
europeo e russo. Si è rivolto perciò all'Europa affinché si convinca che Israele, che
del resto non ha attuato il Rapporto Mitchell ed il Piano Tenet ed insiste a non
smantellare i propri insediamenti, non vuole la pace. Anche gli Accordi di Oslo - dalla
Siria non approvati ma comunque non impediti - sarebbero stati smentiti da Sharon,
nonostante le concessioni fatte dai palestinesi e non condivise dai siriani.
Ribadito l'apprezzamento per il contributo di pace
dell'Italia, Qaddoura ha dichiarato la disponibilità della Siria a riprendere il
negoziato senza condizioni pregiudiziali, rispondendo ad una domanda dell'Onorevole Spini.
Il Presidente dell'Assemblea del Popolo ha, quindi,
affermato che non si può definire terrorismo la lotta per la propria terra, la libertà
ed il proprio futuro, al pari della Resistenza francese ed italiana al nazi-fascismo (di
cui ha ricordato anche l'oppressione della Libia e dell'Etiopia). Sostenendo il principio
di Madrid di "una terra per due popoli" sarebbe stato accettato dagli arabi, ma
non dagli israeliani, ha rilevato che i primi hanno garantito frontiere sicure allo Stato
di Israele, mentre i secondi occupano ancora Gaza e Cisgiordania. Ha poi ricordato che la
stessa Siria è stata impegnata nella resistenza nazionale contro gli occupanti prima
turchi e poi francesi.
Qaddoura ha successivamente contestato agli USA di avere scoperto il terrorismo solo dopo
l'11 settembre, pur ribadendo la propria condanna di quegli atti. In passato, quando era
la Siria a reprimere il terrorismo, erano gli USA a protestare per la violazione dei
diritti umani. Ora sono loro ad averli dimenticati, non preoccupandosi affatto della sorte
dei civili in Afghanistan. A suo avviso, dà così l'impressione che ci siano due pesi e
due misure.
Affermato l'impegno siriano nel partenariato euromediterraneo, il Presidente
dell'Assemblea del Popolo ha richiamato la necessità che l'Europa giochi un ruolo più
incisivo nel Medio Oriente non solo per la vicinanza ma anche per maggiore conoscenza
della realtà rispetto agli USA, anche in forza dell'antica civiltà europea che è stata
la prima a parlare di diritti umani, mentre gli USA hanno solo due secoli di storia.
Qaddoura ha infine espresso grande preoccupazione per l'eventualità di un'esplosione del
conflitto, in considerazione dell'oppressione israeliana sui palestinesi.
All'osservazione dell'Onorevole La Malfa che anche
Israele è in una tale condizione e che il popolo ebraico lo è stato nel corso del
secolo, l'interlocutore siriano ha risposto che otto milioni di palestinesi sono profughi
e che chi occupa i territori altrui non può essere il gatto del proverbio. Comunque, se
Hitler è stato il primo responsabile a causa dell'Olocausto, oggi sono gli arabi a
pagarne il prezzo. Del resto, a suo avviso, gli israeliani speculano sull'antisemitismo,
arrivando ad accusarne persino la Francia per la sua politica filo-araba. A Madrid erano
stati dimenticati i lutti ed i torti subiti, ma ora è arrivato Sharon e tutto è saltato:
a giudizio di Qaddoura, se non si riparte da dove si era arrivati non ci sarà la pace. Un
tale messaggio dovrebbe essere portato a conoscenza di tutti i Paesi europei.
In conclusione, alla domanda dell'Onorevole La Malfa
se sia ipotizzabile comunque una pace separata siro-israeliana, il Presidente
dell'Assemblea del Popolo non l'ha esclusa.
Il Presidente della Repubblica araba siriana, Bashar
Assad, ha aperto l'incontro richiamandosi al bisogno del dialogo, la cui mancanza ha
portato agli attentati negli USA. Occorrerebbe ascoltarsi, capire le differenze e lavorare
insieme. I popoli europei costituiscono per Assad un naturale ponte culturale tra Medio
Oriente e Stati Uniti d'America, in particolare quelli del Mediterraneo che hanno
convissuto con gli arabi e ne conoscono la civiltà. È in quest'ottica che egli giudica
molto importanti i contatti tra i Parlamenti, in quanto più vicini alle rispettive
opinioni pubbliche e rispecchiano la realtà sociale.
Il Presidente Selva, nel salutare l'ospite, ha
sottolineato il ruolo chiave della Siria nella regione, per cui ha proposto un modello di
sviluppo e cooperazione simile a quello sperimentato dall'Europa. Oggi, il nemico
dell'umanità è il terrorismo internazionale, ma non si possono ignorare le cause dello
scoppio della violenza che ne diventano in certo modo gli alibi. Illustrata la mozione
approvata dalla Camera per il processo di pace in Medio Oriente, il Presidente Selva ha
richiamato prima l'esigenza del rispetto della tregua da entrambe le parti, quindi
l'eventualità di una Conferenza internazionale, fermo restando il diritto dei palestinesi
al loro Stato e quello degli israeliani a frontiere sicure. L'Italia sarà comunque nel
gruppo di testa della comunità internazionale nell'impegno di creare un'area di pace,
libertà e benessere nel Medio Oriente.
Il Presidente siriano ha concordato sulla validità
del modello europeo e del partenariato euromediterraneo, compiacendosi dei progressi
dell'integrazione comunitaria e della non scontata conquista della moneta unica. Ha poi
ricordato che la Siria ha da tempo invitato i Paesi della regione ad una maggiore unione e
che ora si paga il prezzo del relativo ritardo.
Assad ha quindi attirato l'attenzione sull'errore commesso nel collegare i fatti dell'11
settembre ed il processo di pace. A suo avviso occorre distinguere tra il terrorismo e
l'ambiente in cui esso trova terreno fertile: quest'ultimo non è detto che ne sia la
causa; spesso, invece, il terrorismo non è che la reazione ad una altro atto
terroristico. Sottolineando che non basta condannare il crimine, ma occorre capirne le
cause, Assad ha ammonito che l'attuale mobilitazione internazionale per il processo di
pace non sia fatta risalire all'11 settembre.
Il Presidente siriano ha poi ricordato di aver ricevuto una delegazione parlamentare
statunitense e di avere loro contestato di stare caratterizzando la lotta al terrorismo
nel segno della vendetta e non del suo effettivo impedimento. Ha rimarcato in proposito
che la Siria è stata la prima vittima del terrorismo moderno nel Medio Oriente tra il
1976 ed il 1982, ma l'ha combattuto con le armi della politica e della cultura.
Occorrerebbe infatti a suo avviso una distinzione di fondo - che purtroppo in Occidente
non si fa - tra tre cose assai diverse:
l'Islam, che è una religione rivelata che invita a fare il bene ed a vivere in modo
santo;
l'estremismo, che esaspera la religione ed esiste del resto anche nel cristianesimo e
nell'ebraismo;
il terrorismo, che usa la religione e può trovare proseliti tra gli estremisti.
Ne deriva a suo giudizio la conclusione - adottata
in Siria per combattere appunto il terrorismo - di favorire l'islamismo moderato. La
radice del terrorismo, peraltro, starebbe nella profonda frustrazione nei confronti
dell'Occidente: ciò starebbe avvenendo in Palestina. La prima intifada avrebbe infatti
avuto luogo quando la comunità internazionale non riconosceva i diritti del popolo
palestinese; la seconda intifada sarebbe scoppiata quando il negoziato è fallito e si
sarebbe accentuata con l'atteggiamento assunto da Sharon.
Quanto alla proposta di una Conferenza internazionale, Assad ha espresso il dubbio che si
rimetta in discussione quanto stabilito a Madrid (il principio della pace in cambio della
terra) e si perdano molti altri anni. A suo avviso, la soluzione preferibile sarebbe il
dialogo diretto tra le parti, così come ad esempio avviene tra Siria e Turchia, senza
bisogno di mediatori. La situazione con Israele è però da lui considerata differente, a
causa dell'antica inimicizia. In particolare, ha precisato che gli USA avrebbero di fatto
escluso mediatori come l'ONU, l'Europa o la Russia.
Il ruolo dell'Unione europea - a giudizio del Presidente siriano - non deve però mirare
ad un'iniziativa propria ma svolgersi sempre in raccordo con quello degli USA per il
ritorno alle risoluzioni dell'ONU ed ai principi di Madrid in vista del ristabilimento
della fiducia tra le parti. L'Europa è sentita più vicina degli USA non solo
geograficamente ma anche culturalmente; tuttavia essa sarebbe oggi impedita a svolgere
un'azione incisiva dagli stessi Stati Uniti che la bloccano ed ora hanno ripreso ad
interessarsi del Medio Oriente solo perché c'è stato l'11 settembre.
Assad ha quindi fatto riferimento ad un colloquio col Presidente della Commissione
europea, Prodi, in cui si è posta la necessità di pensare non solo alla pace, ma anche
allo sviluppo, altrimenti l'arretratezza della regione si ripercuoterà inevitabilmente
sull'Europa.
Ad una domanda dell'Onorevole Spini relativa
all'opinione pubblica israeliana che si è rivolta verso Sharon per la mancanza di
sicurezza, il Presidente siriano ha risposto che comunque con il nuovo Premier la
sicurezza è diminuita invece di aumentare.
Assad ha pertanto puntualizzato che è la pace che porta alla sicurezza e non viceversa,
come erroneamente vuole la dirigenza israeliana. Il fallimento di Madrid sembrerebbe forse
da imputarsi al fatto che erano previsti i principi della pace ma non gli strumenti per
attingerla. Indicare tali strumenti potrebbe essere il compito dell'Europa ed in questo
senso anche l'eventualità di un'altra Conferenza internazionale potrebbe tornare utile,
purché sia dedicata ad aspetti concreti.
Facendo seguito ad una domanda dell'Onorevole La
Malfa, il Presidente siriano ha ulteriormente precisato di aver sempre pensato ad un ruolo
dell'Unione europea che sia complementare e non antagonistico rispetto agli USA, la cui
situazione politica interna influenza, del resto, il Medio Oriente a causa della lobby
ebraica. L'Europa dovrebbe perciò sempre confrontarsi con gli Stati Uniti; ma anche altri
soggetti, come ad esempio il Giappone, potrebbero intervenire.
Sempre rispondendo all'Onorevole La Malfa, Assad ha fatto il punto sul contenzioso
siro-israeliano. In un primo tempo il negoziato fu interrotto dopo l'assassinio di Rabin;
con Barak è stato ripreso, ma il leader israeliano si è concentrato sulla questione
idrica e sulla sicurezza, soprassedendo sugli accordi di Madrid e sulle risoluzioni
dell'ONU relative al ritiro delle truppe. La Siria non chiede, quindi, all'Europa di
prendere le sue parti, ma semplicemente di garantire il rispetto degli atti internazionali
votati dagli stessi Paesi europei tra cui l'Italia.
Alle osservazioni critiche dell'Onorevole Mantovani
sull'inadeguatezza della posizione europea, il Presidente siriano ha reso noto che a
quanto gli consta l'Unione sarebbe stata vicina a prendere provvedimenti a danno di
Israele dopo un duro colloquio tra Sharon e Solana, ma gli USA ed il Regno Unito
l'avrebbero impedito. La posizione europea è considerata dalla Siria molto logica e
sensata; anche le eventuali divergenze sono sempre state appianate. Oggi la soluzione del
problema passa proprio dal dialogo euro-americano. Invece gli Stati Uniti penserebbero a
vendicarsi per i fatti dell'11 settembre, cercando di farsi giustizia da sé. Secondo
Assad, gli USA hanno sconfitto i talebani, ma non hanno preso i colpevoli della strage
terroristica (che potrebbero essere fuggiti ed essere ovunque). Si sarebbe data così
un'implicita autorizzazione al ricorso alla forza magari da parte della Cina nei confronti
di Taiwan; allo stesso modo si comporta Israele. Ha riconosciuto tuttavia che l'Europa ha
cercato di differenziarsi dagli USA, sostenendo di aver partecipato alla guerra per
calmierare l'alleato americano. Infine il ruolo dell'ONU gli sembra confinato a sede di
dibattito, non di soluzione delle crisi.
Quanto alle responsabilità del G7, egualmente sollevate dall'Onorevole Mantovani, Assad
ha dichiarato di preferire la valutazione degli atteggiamenti dei singoli Stati che ne
sono membri.
Rispondendo all'Onorevole Zacchera, il Presidente
siriano ha affermato di considerare Arafat il solo capo palestinese sulla scena,
nonostante tutto, anche perché il suo posto non potrebbe essere preso che da bande
affaristiche. I passati dissensi politici confermano inevitabilmente una sfiducia
personale, ma non influenzano i rapporti col popolo palestinese, per la cui lotta c'è la
massima solidarietà. Del resto, oggi anche europei ed americani si sono resi conto che
Arafat è un "mentitore". Sarebbe quindi preferibile che l'Europa dichiarasse di
sostenere la causa palestinese e non tanto la persona di Arafat. È però Sharon che ormai
sembra non accettare più nemmeno l'idea dello Stato palestinese, come dimostra anche il
divieto imposto ad Arafat a partecipare alla Messa di Natale a Betlemme.
Assad si è quindi espresso in senso contrario
all'embargo all'Iraq, su domanda dell'Onorevole Ballaman. In passato, la Siria ha avuto
profonde divergenze con quel Paese che addirittura sosteneva il terrorismo anti-siriano,
ivi inclusa la guerra del Golfo. Anche a questo proposito, si deve a suo avviso
distinguere tra la persona di Saddam Hussein ed il popolo iracheno, su cui ricadono le
conseguenze dell'embargo. Lungi dal danneggiare Saddam, la politica americana l'avrebbe
invece rafforzato. È da escludere, del resto, per Assad, che l'Iraq abbia armi chimiche
oppure di distruzione di massa; le sue forze armate sono sufficienti a malapena a
sostenere il regime. Vi sarebbe invece il petrolio ed una qualificata classe
intellettuale, tra le più progredite nel mondo arabo. Ha quindi insistito sulla
necessità che l'Europa si batta per abrogare l'embargo anche a fini economici, per
divenire cioè la testa di ponte dei commerci dell'area, in concorrenza con gli USA.
All'interesse umanitario si unirebbe infatti, per l'Europa, un diretto interesse economico
all'acquisizione di nuovi mercati. A titolo di esempio, l'interlocutore siriano ha
ricordato invece il caso delle commesse aeree saudite trasferite dall'Europa agli USA.
Rispondendo sull'eventualità di un'iniziativa
siriana per il processo di pace all'Onorevole Rivolta, Assad ha ribadito il grave errore
statunitense di aver escluso l'ONU, cosa che ha indotto negli israeliani una sensazione di
impunità, dal momento che hanno le armi nucleari e dispongono di un esercito più forte
di quello di tutti gli Stati arabi messi insieme. L'attuale crisi deriverebbe dall'assenza
di una forza che si imponga ad entrambe le parti anche minacciando sanzioni; il negoziato
verrebbe portato avanti solo per ragioni di politica interna a beneficio dei mass-media.
Occorrerebbe, invece, individuare gli strumenti che possano condurre alla pace.
Tornando sul ruolo dell'Europa, su sollecitazione
dell'Onorevole De Laurentiis, l'interlocutore siriano ha confermato grande attenzione per
l'immagine dell'UE nel mondo, affermando tuttavia che la dimensione economica non può
essere scissa dalla dimensione politica, in quanto l'economia è il nerbo della politica.
Sempre rispondendo all'Onorevole De Laurentiis, Assad ha quindi fatto stato del
miglioramento delle relazioni siro-libanesi, richiamandone i precedenti storici.
L'intervento siriano fu causato dalle divisioni interne a quel Paese ed avvenne a favore
della parte più debole (i cristiano-maroniti), ma la situazione non può ancora dirsi
normalizzata e tutte le parti cercano di accattivarsi il favore della Siria. Tuttavia,
sarebbe in corso un ritiro progressivo a fronte della ricostituzione dell'esercito
libanese.
In conclusione, il Presidente Selva, congratulandosi
per l'elezione della Siria nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, ha auspicato la
partecipazione siriana al prossimo Forum parlamentare euromediterraneo che si svolgerà in
Italia nell'arco del 2002. Il Presidente siriano ha assicurato che incoraggerà tale
partecipazione.
Libano (10 gennaio 2002)
In apertura dell'incontro con il Presidente della
Repubblica libanese, Emile Lahoud, il Presidente Selva, congratulatosi per la firma
dell'Accordo di associazione con l'Unione europea, ha illustrato la mozione approvata
dalla Camera sul processo di pace.
Lahoud ha innanzitutto paragonato l'attuale
situazione palestinese a quella del Libano, che ne è uscito grazie alla ritrovata unità
ed all'aiuto siriano. La resistenza popolare avrebbe costretto infatti Israele ad
abbandonare il Paese, che è stato liberato benché permanga lo stato di guerra. Mentre si
dovrebbe tornare al tavolo delle trattative e ripartire dalle risoluzioni e dagli accordi
internazionali, il governo israeliano si è affidato alla forza, da quando la provocazione
di Sharon ha riaperto l'intifada.
Il Presidente libanese ha quindi riepilogato le gravi conseguenze subite dal suo Paese a
causa del conflitto per l'arrivo dei profughi palestinesi che assommano a circa il 10 per
cento della popolazione libanese ed hanno un elevato tasso di natalità. Ciò sta
compromettendo gravemente l'equilibrio demografico in un Paese che ha 17 confessioni
religiose e che dal 1990 sta dando prova della possibilità della convivenza pacifica,
purché tra libanesi.
Per Lahoud è quindi prioritario garantire la sussistenza del Libano, che rifiuterà
pertanto ogni soluzione che la metta a repentaglio: la pace deve essere giusta e globale
(includendo cioè anche la restituzione del Golan alla Siria).
Quanto alla lotta al terrorismo internazionale, il Presidente libanese ha ricordato che il
suo Paese ha condannato per primo i fatti dell'11 settembre, avendo fatto diretta
esperienza delle potenzialità di Al-Qaida che tra il 1999 ed il 2000 aveva cercato di
installarsi in Libano, ma era stata debellata. È paradossale, a suo avviso, che allora
gli USA avessero preso le difese del capo di quella cellula terrorista che era un loro
cittadino in nome dei diritti umani.
Tuttavia, a giudizio di Lahoud, la lotta al terrorismo non può includere gli hezbollah,
che sono stati dal 1982 un gruppo della resistenza libanese all'occupazione israeliana. Le
accuse statunitensi nei loro riguardi (anche per il recente caso della nave Karin-A)
deriverebbero in realtà dalla lobby ebraica americana, in quanto Israele non ha mai
accettato di essere stata battuta da quel gruppo.
Il Presidente libanese ha quindi ribadito l'urgenza del ritorno al tavolo negoziale, cui
dovrebbe partecipare anche l'Unione europea che non ha una posizione preconcetta. In
conclusione, ha sottolineato che oggi il Libano è pacificato ma attraversa una crisi
economica a causa delle spese per la guerra e per la ricostruzione. Ci si attende perciò
aiuto dall'Italia, che è il primo partner commerciale, dal momento che uno Stato di
diritto non può che fondarsi su una salda struttura economica.
Rispondendo agli Onorevoli Spini e La Malfa, Lahoud
ha ribadito l'esigenza di una pace globale rispetto a trattative separate con Israele da
parte siriana o libanese, salvo poi precisare che globale non significa simultanea.
Il Presidente libanese, sollecitato dall'Onorevole
Zacchera, ha poi affermato che la presenza cristiana è essenziale per il Libano ed è
garantita dall'espressione dello stesso Presidente della Repubblica.
A margine del colloquio, l'Onorevole Rivolta ha
brevemente presentato l'Associazione di amicizia Italia-Libano da lui presieduta.
In apertura dell'incontro con il Presidente
dell'Assemblea nazionale libanese, Nabih Berri, il Presidente Selva ha illustrato la
mozione approvata dalla Camera sul processo di pace in Medio Oriente ed ha richiamato la
prospettiva del nuovo ordine mondiale, in cui i Paesi ricchi hanno il dovere di aiutare
gli altri non solo a scopo umanitario, ma anche per diretti interessi reciproci.
Berri ha innanzitutto ringraziato l'Italia, anche
per quello che fa nel Libano meridionale. Rilevato che anche nel nuovo secolo la questione
palestinese rimane irrisolta, ha sottolineato come la pace non possa essere solo un
accordo, ma debba trasfondersi in un'atmosfera complessiva. Basti l'esempio dell'Egitto
che pure ha siglato gli accordi di Camp David: il suo popolo è ancora ostile verso
Israele, come del resto tutti i popoli arabi, di fronte ai massacri dei palestinesi.
A giudizio dell'interlocutore libanese, che ha richiamato la decisione della Lega Araba di
non dialogare con Sharon finché non riprende i contatti con Arafat, occorrerebbe tornare
ad un tavolo negoziale simile a quello di Madrid, con la presenza non solo di israeliani e
palestinesi, ma anche di siriani e libanesi. Inoltre ha espresso la necessità di un ruolo
attivo dell'Europa. Invece gli USA, che non comprendono la realtà araba, si credono
autosufficienti (benché siano effettivamente necessari). Sarebbe però soprattutto
Israele che boicotta un'accentuazione del ruolo europeo.
Berri ha quindi spiegato, su domanda dell'Onorevole
Ballaman, che la presenza siriana in Libano è necessaria sino alla risoluzione della
crisi medio-orientale, anche a causa della presenza di 400.000 palestinesi (la metà al
Sud) e del persistere della minaccia israeliana. A suo avviso, la Siria ha tenuto insieme
il Libano nel corso della guerra civile, evitando la divisione del Paese in tanti piccoli
staterelli.
In conclusione, l'Onorevole Spini ha confermato la
solidarietà italiana per il mantenimento dell'unità del Libano e per il suo accordo con
l'Unione europea, mentre il Presidente Selva ha chiesto se era possibile una moratoria
relativa alla pena di morte. L'ipotesi è stata al momento esclusa da Berri.
L'Onorevole Rivolta ha quindi brevemente fatto
riferimento all'Associazione di amicizia italo-libanese da lui presieduta.
Il Ministro degli Esteri della Repubblica libanese,
Mahmoud Hammoud, ha rilevato le eccellenti relazioni bilaterali, sin dall'appoggio
italiano alla risoluzione 425 delle Nazioni Unite per il ritiro delle truppe israeliane.
Ha quindi ribadito la condanna per i fatti dell'11 settembre, ricordando sia i passati
attentati subiti dal suo Paese che l'attuale impegno nella lotta al riciclaggio che
alimenta il terrorismo dal punto di vista finanziario. Ha però subito sottolineato la
doverosa distinzione tra terrorismo ed islamismo, esprimendo preoccupazione per il
processo di pace, a fronte del fallimento di Madrid.
Il Presidente Selva ha definito storica la firma
dell'Accordo di associazione tra il Libano e l'Unione europea, rimarcando come l'Unione
aspiri a svilupparsi politicamente. Ha quindi illustrato la mozione approvata dalla Camera
e ribadito il ruolo dell'Italia nel contesto mediterraneo.
Hammoud ha apprezzato il riferimento alla legalità
internazionale ed all'esigenza di una pace globale, secondo i principi di Madrid.
Tuttavia, a suo giudizio, Israele ha mostrato di non volere la pace e di preferire
affidarsi all'uso della forza.
Rispondendo poi all'Onorevole Spini e all'Onorevole
Boato sulle prospettive del processo di pace, il Ministro libanese ha precisato che da
parte di Arafat c'è stato il massimo impegno possibile, senza che da parte israeliana
venisse alcun segnale positivo. Del resto, non sarebbe giusto imputare ad Arafat ogni
gesto compiuto da qualunque palestinese. Quanto al recente sequestro della nave Karin-A,
ha ritenuto che si dispone solo di notizie giornalistiche per le quali da un lato Arafat
nega ogni coinvolgimento e dall'altro gli israeliani sostengono di averne le prove.
Ha infine riconosciuto parole di speranza nella visita del Papa Giovanni Paolo Il, che ha
additato come esempio la convivenza civile tra le molteplici minoranze del Libano.
Alla domanda dell'Onorevole Monaco sulla
frustrazione da cui deriverebbe un radicale scetticismo verso un nuovo tavolo negoziale,
Hammoud ha risposto che il quadro generale è già stato tracciato a Madrid e che ormai il
problema è rappresentato soprattutto da Israele. A sua richiesta, il Presidente Selva ha
poi chiarito che la proposta italiana per una nuova Conferenza internazionale si rivolge a
tutte le parti e che se ci saranno risposte positive superiori alle negative se ne
valuterà la fattibilità.
In conclusione, il Ministro libanese ha ribadito
l'esigenza di fare presto. A margine, l'Onorevole Rivolta ha brevemente fatto riferimento
all'Associazione di amicizia italo-libanese da lui presieduta.
Autorità Nazionale Palestinese
(12 gennaio 2002)
Il Presidente del Consiglio legislativo palestinese,
Ahmed Qurei (Abu Ala), ricordata l'amicizia dell'Italia che è stata il primo Paese
europeo a riconoscere i diritti dei palestinesi, ha rimarcato la delicatezza della
situazione che segna un punto decisivo della storia del suo popolo. Ha quindi accusato il
governo israeliano di voler risolvere tutto nella questione della sicurezza, ignorando il
processo di pace. Escluso ogni approccio politico, Sharon non avrebbe tenuto conto dei
numerosi cessate-il-fuoco conseguiti ed ha sempre puntato sul ricorso alla forza: l'ultimo
episodio ha riguardato oltre 50 famiglie palestinesi la cui casa è stata rasa al suolo,
per consentire all'esercito israeliano una migliore visuale. Lamentando che non sia valso
a nulla neanche il discorso di Arafat del 16 dicembre 2001, in cui si lanciava un appello
al negoziato come scelta strategica, ha rilevato che oggi Israele sembra non ascoltare
più neanche gli USA.
Abu Ala ha quindi chiarito l'estraneità dell'ANP al traffico d'armi della nave Karin-A,
dichiarando la più ampia disponibilità ad un'inchiesta internazionale accanto a quella
già avviata dalla stessa ANP. Sarebbe Israele che sta amplificando il caso, quando è del
tutto evidente che tale contrabbando non solo è contrario alla politica palestinese ma
non avrebbe neanche potuto avere luogo per lo stretto controllo marittimo israeliano.
Il Presidente palestinese ha poi ribadito la strategicità del processo di pace per la sua
parte e la ricerca di una soluzione permanente e globale, mentre gli israeliani violano
tutti gli accordi e pretende che i palestinesi restino fermi. Occorrerebbe perciò che, di
propria volontà o a seguito delle pressioni internazionali, Israele riprenda a trattare.
Abu Ala ha reso inoltre noto di aver avuto proprio a Roma il suo ultimo colloquio con il
Ministro degli Esteri israeliano, Shimon Peres, durato quattordici ore.
Il Presidente Selva, sottolineata l'importanza della
mozione approvata dalla Camera sul processo di pace, ha espresso grande apprezzamento e
speranza per la trattativa avviata da Abu Ala con Simon Peres.
Il Presidente Abu Ala ha chiarito l'obiettivo di
fare breccia nelle rispettive opinioni pubbliche, anche se sembra quasi un sabotaggio il
fatto che ad ogni loro incontro segua un atto di violenza. Si è dovuta risalire la china
di un tentativo di delegittimazione di Arafat e dell'ANP, cui avrebbe contribuito lo
stesso Clinton criticando il rifiuto palestinese del Piano Barak, che a suo giudizio
avrebbe garantito ogni concessione possibile.
Abu Ala ha proposto che si presenti subito alle rispettive opinioni pubbliche l'obiettivo
finale del processo di pace, e cioè la nascita dello Stato palestinese a fronte della
sicurezza dello Stato di Israele, lungo le frontiere del 4 giugno 1967. Ha confermato
l'assenso al Rapporto Mitchell ed al Piano Tenet, prevedendo nove mesi di negoziato e nove
mesi per l'attuazione degli accordi. Ha però rilevato che, a seguito della fuga di
notizie che ha pubblicizzato il documento concordato tra lui e Peres, Sharon lo ha
definito meramente virtuale, anzi irrealistico e grave.
Dopo che l'Onorevole Spini ha sottolineato il fatto
positivo che dopo l'11 settembre anche gli USA parlano apertamente di Stato palestinese,
Abu Ala ha risposto all'Onorevole Monaco, che osservava come la crisi si sia aggravata dal
rifiuto del Piano Barak, ribadendo che alcune condizioni (ad esempio il controllo
dell'aria) erano inaccettabili e che comunque il leader israeliano anche in precedenti
occasioni aveva dichiarato di essersi spinto sino al massimo delle concessioni. Il vero
problema è a suo avviso che il popolo palestinese sta soffrendo l'occupazione più
violenta, aggressiva ed ingiusta, mentre l'approccio israeliano resta limitato alla
sicurezza, senza contemplare il diritto e la pace.
Il Presidente palestinese ha quindi confermato
all'Onorevole Mantovani che è in corso da parte israeliana un tentativo di spaccare
dall'interno l'ANP, e prendere personalmente di mira Arafat, che resta invece non solo un
simbolo ma anche il Presidente liberamente eletto, manifestando stupore per il silenzio
del mondo al riguardo. Ha apprezzato comunque il ruolo dell'Europa, costantemente
rappresentata da Solana e dal plenipotenziario Moratinos, mentre è attesa la visita del
Ministro degli Esteri spagnolo che esercita la presidenza di turno dell'Unione europea.
Abu Ala ha poi giudicato di alto valore la proposta italiana di un Piano Marshall per la
Palestina, cui ha fatto riferimento il Presidente Selva. All'Onorevole Rivolta, ha poi
precisato che la questione della nave Karin-A è un pretesto per assestare un colpo
all'ANP (sarebbe infatti veramente impossibile fare entrare le armi nei territori); il
contrabbando di armi è del resto fiorente nell'area e non riguarda certo i palestinesi.
Quanto alla pretesa diversità dei discorsi di Arafat a seconda che siano tenuti in
inglese oppure in arabo, ha assicurato che il tenore è comunque il medesimo.
Rispondendo all'Onorevole Zacchera sui rapporti con
l'Iran, il Presidente palestinese li ha definiti "non eccellenti", in quanto la
Guida spirituale Khamenei aveva giudicato Arafat un traditore per aver aperto i negoziati
con Israele. Migliori sarebbero le relazioni iraniane con alcuni gruppi estremisti.
All'Onorevole Spini Abu Ala ha quindi assicurato che
continua ad essere in contatto telefonico con Peres con l'avallo di Arafat, poiché non
c'è alternativa al dialogo. Tuttavia, a suo giudizio, Sharon cercherebbe di impedirlo
puntando solo sulla sicurezza, che invece non può che essere il risultato di una
soluzione politica.
In conclusione, il Presidente palestinese ha
precisato all'Onorevole La Malfa che sia Hamas che la Jihad hanno smentito di aver rotto
la tregua.
Il Ministro per la cultura e l'informazione
dell'ANP, Yasser Abed Rabbo, ha invitato a constatare direttamente le sempre più gravi
condizioni del suo popolo ed ha espresso la sensazione di rabbia dei suoi compatrioti per
la giustificazione degli USA della distruzione di 75 case palestinesi a Rafah nonché
delle piste dell'aeroporto di Gaza (inaugurato da Clinton e finanziato anche dall'Unione
europea) da parte israeliana, in quanto atto di autodifesa. Ha inoltre smentito ogni
coinvolgimento nel traffico d'armi della Karin-A, ritenendo fantastica l'ipotesi di
un'alleanza dell'ANP con iraniani ed hezbollah. A suo avviso, si tratta di un alibi per
avallare la distruzione dell'ANP stessa e per privare il popolo palestinese della sua
guida. Sarebbe infatti a capo di Israele un governo di estrema destra, deciso a mettere le
mani sulla maggior parte dei territori con la forza, tanto che il Ministro della Giustizia
avrebbe dichiarato di voler porre fine all'ANP appena si avrà l'assenso statunitense.
Rabbo ha quindi rivendicato il cessate-il-fuoco proclamato da Arafat il 16 dicembre 2001,
nonostante sia impossibile controllare ogni cittadino quando si è un popolo occupato di
fronte ad un esercito occupante. A suo giudizio, gli USA hanno commesso gravi errori, tra
cui quello di accettare la pretesa di Sharon che fosse lui stesso ad accertare la
validità dei sette giorni di tregua, mentre ci sarebbe voluto un giudice terzo. In tal
modo, si sarebbe svuotato il ruolo degli stessi USA e della comunità internazionale.
Il Ministro palestinese ha sottolineato l'estrema gravità del momento, imputabile proprio
al pubblico piano di Sharon di sopprimere l'ANP ed il suo leader.
Pur apprezzando il ruolo dell'Europa, Rabbo ha
dovuto tuttavia ammettere che esso è assai limitato, poiché la politica europea si
modella su quella statunitense, anche perché i quindici Paesi non hanno assunto un
comportamento unitario. Ad esempio, l'Unione europea non ha ancora condannato la
distruzione delle case palestinesi a Rafah, che considera un crimine di guerra (in passato
denunce analoghe ci erano invece state). Ha comunque apprezzato che in Israele il
movimento pacifista abbia chiesto che un tribunale internazionale giudichi i militari che
ne sono stati responsabili.
Il Presidente Selva si è detto consapevole delle
cose importantissime e gravissime esposte, esprimendo comprensione per le vittime di
un'eccessiva reazione militare. Ma la stessa comprensione va ai giovani israeliani uccisi
in una discoteca di Tel Aviv. Ha quindi precisato che l'Italia e l'Unione europea non
hanno una politica prona a quella degli USA ed ha garantito il massimo impegno per
riattivare il processo di pace, anche se fare gli accordi e mantenerli spetta alle parti.
Rabbo ha allora riaffermato la differenza
fondamentale, e cioè che i palestinesi sono gli occupati e gli israeliani sono gli
occupanti, che perpetrano assassinii selettivi ed eseguono condanne senza processo
attuando una repressione collettiva contro un intero popolo, mentre l'ANP ha invece sempre
correttamente perseguito i responsabili degli attentati. Si tratterebbe ormai di
un'occupazione che è divenuta anche apartheid per sradicare tutto un popolo dalla sua
terra: i palestinesi sono continuamente vittime di confische; la crescita anche minima
della popolazione araba di Gerusalemme è vissuta come un autentico pericolo.
Il Ministro palestinese ha poi concluso che, mentre Arafat ha approvato le trattative
condotte da Abu Ala, Sharon ha sconfessato Peres. In verità, il leader israeliano
preferirebbe disfarsi di Arafat ed avere anche un interlocutore più duro proprio per
giustificare la distruzione dell'ANP che è invece pronta a tornare a trattare
immediatamente.
Alle domande degli Onorevoli Spini e Rivolta, Rabbo
ha dichiarato che i territori sono oggi addirittura più oppressi che prima degli accordi
di pace ed ha invitato a vivere per un giorno la vita del cittadino palestinese per
rendersene conto.
Il Presidente dell'ANP, Yasser Arafat, ha
innanzitutto ringraziato per una così importante visita in un momento tanto delicato: il
popolo palestinese sta vivendo una gravissima aggressione militare, mentre sul suo conto
sono sparse molte menzogne. Ha quindi elencato gli ultimi atti israeliani, dalla
distruzione di 81 case a Rafah che ha ridotto all'addiaccio 130 famiglie palestinesi (la
Commissione per i diritti umani dell'ONU ha condannato l'episodio) alla demolizione del
porto e dell'aeroporto di Gaza, incluso il suo motoscafo personale. Continua dunque a suo
avviso l'assedio del popolo palestinese: il Muftì di Gerusalemme è sotto processo senza
che abbia alcuna responsabilità, mentre a lui stesso è stato negato l'accesso a Betlemme
in occasione del Natale sia cattolico che ortodosso, in violazione dello stesso statu quo
che vige dal 1905 nei Luoghi Santi. Eppure, ha ricordato che in occasione del Giubileo del
2000, era stato proprio lui a riunire nella cittadina palestinese i rappresentanti di
tredici confessioni cristiane.
Arafat ha quindi lamentato le sofferenze di tutta la sua terra: gli aiuti sono bloccati, i
pozzi d'acqua chiusi, gli ulivi sono sradicati, i fondi agricoli devastati. Sottolineando
come i palestinesi abbiano firmato gli accordi di pace, ha denunciato allora come evidente
la strategia israeliana di considerarli ormai superati, domandandosi però come ciò possa
essere accettato dalla comunità internazionale.
Quanto alla Karin-A, il Presidente dell'ANP si è stupito del fatto che si possa credere
che sia l'Iran a mandargli armi, dopo che Khamenei lo ha condannato a morte tenendo un
kalashnikov sul Corano. Del resto, sarebbe assolutamente stato impossibile scaricare la
nave a Gaza, senza contare che avrebbe dovuto passare attraverso il canale di Suez sotto
sorveglianza egiziana. Ricordato di aver avuto il permesso di detenere armi dopo l'attacco
di Sharon a Beirut e di averle poi lasciando il Libano distribuite nei vari Paesi arabi,
Arafat ha chiarito di avere comunque a disposizione 50 blindati russi che aveva a suo
tempo importato con l'autorizzazione di Rabin, il suo vero interlocutore che è stato
ucciso dagli estremisti israeliani. Nel dare notizia di aver costituito una commissione
d'inchiesta, invitando invano gli USA, l'Unione europea e la Russia a farne parte, ha
riaffermato che si tratta di una pura invenzione per mascherare i crimini degli israeliani
contro i palestinesi.
Arafat ha quindi ripetuto la richiesta degli osservatori internazionali, approvata
dall'Europa, ma ciononostante non esaudita. Proprio un intervento europeo oggi si
imporrebbe come una necessità, in quanto ciò che accade in Medio Oriente non può non
incidere sull'Europa.
Il Presidente Selva, richiamati i legami storici,
culturali e religiosi tra l'Italia e l'ANP, ha illustrato la mozione approvata dalla
Camera sul processo di pace, facendo riferimento al ruolo del Papa. Riepilogando gli
incontri già svolti negli altri Paesi arabi, ha preso atto dell'unanime domanda di un
ruolo più attivo dell'Europa. Augurandosi poi che riprendano i contatti tra Abu Ala e
Peres, ha garantito che l'Italia si impegnerà ma ha precisato che la strada per tornare
al dialogo deve essere ritrovata essenzialmente dalle parti. Riferendosi anche alla
proposta italiana di un Piano Marshall per la ricostruzione della Palestina, ha auspicato
che il Medio Oriente possa avere lo stesso destino di pace che oggi vive l'Unione europea.
Arafat si è detto d'accordo sulla posizione
italiana ed ha ricordato che da parte israeliana si muove qualcosa: c'è stato un
colloquio in Sud Africa con alcuni laburisti come Beilin (che però oggi non ha il potere
effettivo) alla presenza del Presidente M'beki, anche nella sua qualità di Presidente dei
Paesi Non Allineati, ed è stato siglato un documento (ne ha consegnato copia alla
delegazione italiana). Purtroppo, il Presidente israeliano Katsav, che era disponibile a
parlare al Consiglio legislativo palestinese per annunciare una tregua così come lo
stesso Arafat il 16 dicembre 2001 aveva proclamato il cessate-il-fuoco, sarebbe stato
bloccato da Sharon, che avrebbe pure sconfessato Peres per i suoi contatti con Abu Ala,
dichiarando di essere il solo autorizzato a trattare.
Il Presidente dell'ANP ha quindi insistito sulla necessità di un'immediata mobilitazione
europea, prima che sia troppo tardi e scoppi un'esplosione. L'Italia, in particolare,
potrebbe avere molta influenza, anche presso gli USA. L'urgenza è ulteriormente imposta
dall'esistenza di un piano israeliano (cosiddetto "Inferno") per distruggere
l'ANP.
All'Onorevole Spini che, dopo aver affermato
l'esigenza che Israele capisca che non ci sarà sicurezza se non ci sarà un accordo
politico frutto del negoziato, ha invitato i palestinesi a continuare nel cessate-il-fuoco
ed a collaborare nell'accertamento della verità sulla Karin-A, Arafat ha risposto che se
si dimostrerà che le persone indicate sono coinvolte saranno perseguite, benché al
momento le prove non siano state fornite.
Al rilievo dell'Onorevole La Malfa, che ha notato
cartelli anti-occidentali ed anti-semiti nella scuola del campo profughi dell'UNRWA,
appena visitato dalla delegazione, il Presidente dell'ANP ha risposto che anche nelle
scuole israeliane si fa così e che comunque i proiettili sono più pericolosi dei fogli
scritti dai bambini, sottolineando che i palestinesi hanno subìto 2000 morti e 41000
feriti, tra cui molti bambini.
Arafat ha poi ribadito che l'ANP sta perseguendo i
terroristi palestinesi: la verità - ammessa dallo stesso Rabin come errore fatale alla
presenza dell'egiziano Mubarak e del defunto Re Hussein - è che è stata Israele a
favorire Hamas ed a finanziarla. Oggi la storia si ripeterebbe con Bin Laden che è stato
creato proprio dagli USA. Ha poi ricordato che lui stesso si era invece adoperato nel 1986
per il ritorno dell' ex re afghano come primo ministro a Kabul, a capo di una coalizione
tra comunisti ed islamisti, fatta naufragare da Bin Laden su mandato americano.
Il Presidente palestinese ha quindi insistito sul fatto che il problema di fondo resta
l'occupazione israeliana, che rende la situazione anomala e minaccia di distruggere l'ANP.
All'Onorevole Mantovani, che ha reclamato la massima
mobilitazione internazionale per riportare Israele al tavolo delle trattative, Arafat ha
risposto che sa di poter contare sull'Italia come partner per la pace al 100 per cento.
All'Onorevole Ballaman, che si è interrogato sul senso di portare avanti trattative anche
con chi non ne abbia l'autorità, ha invece risposto che non si può comunque dire di no
ad un invito né lasciare alcunché di intentato.
Israele (13 gennaio 2002)
Il Presidente della Knesset, Avraham Burg, ha aperto
l'incontro comunicando di essere appena tornato da una trattativa svolta in Sud Africa e
manifestando grande interesse per la missione italiana e per le opinioni raccolte nei
Paesi arabi.
Il Presidente Selva ha risposto che in generale in
tali Paesi si addossa a Sharon la responsabilità principale e che si ritiene
insufficiente la pressione internazionale, e statunitense in particolare, su Israele. Ha
quindi ribadito che l'Italia ritiene fondamentale la garanzia internazionale delle
frontiere israeliane, invitando tuttavia ad evitare le reazioni sproporzionate e ad
accelerare il riconoscimento dello Stato palestinese per bloccare le violenze. Auspicando
un rapido ritorno al tavolo delle trattative, ha infine fatto riferimento all'eventualità
di ragionare sugli strumenti della Conferenza internazionale e degli osservatori
internazionali proposti nella mozione approvata dalla Camera.
Sono, quindi, intervenuti l'Onorevole Spini, per
domandare come 21 giorni di tregua non siano stati sufficienti a riaprire il negoziato,
l'Onorevole Monaco, per lamentare che non fossero stati ancora fissati incontri ufficiali
con il governo israeliano, e l'Onorevole Rivolta, per avere notizie del cosiddetto piano
anti-palestinese "Inferno".
Il Presidente della Knesset ha apprezzato il modo
delicato con cui sono state formulate dai deputati della delegazione critiche anche severe
ad Israele, augurandosi che analoghi toni siano stati usati presso i Paesi arabi visitati.
Ha quindi espresso il suo rammarico per il fatto che ancora oggi Israele sia giudicata con
riferimento all'Olocausto, invocando una equanimità di giudizio e respingendo la logica
dei due pesi e delle due misure. Israele avrebbe diritto ad essere giudicata al pari della
Spagna che reprime il terrorismo basco o degli USA che reprimono Al-Qaida.
Burg ha quindi confessato la frustrazione del suo impegno per la pace, che ha visto per la
prima volta un Presidente della Knesset tanto schierato al punto che il recente viaggio in
Sud Africa ha attirato su di lui richieste di revoca dall'incarico. Peraltro, pur avendo
invitato Abu Ala al prezzo di enormi polemiche interne, nonostante le promesse non ha
potuto ricambiare la visita al Consiglio legislativo palestinese. Anche l'iniziativa di
dialogo promossa nel 1999 con il precedente Presidente della Camera italiana non ha avuto
seguito. Pur non condividendo la posizione del suo partito all'interno del governo, ha
però precisato che per il suo ruolo è comunque chiamato ad un atteggiamento
istituzionale.
Il Presidente della Knesset ha allora mostrato come
Israele sia oggi una società in grave contraddizione: il 60-70 per cento appoggia Sharon,
ma la stessa percentuale approverebbe la pace. È stato però assai grave il colpo per il
rifiuto del Piano Barak che conteneva le proposte più lungimiranti, nonostante i
precedenti errori fatti dallo stesso Barak. Gli israeliani avevano infatti accettato il
principio dei due Stati, dei due popoli e di una capitale, ma oggi non si fidano della
controparte. A questo proposito, non si può non rilevare, secondo Burg, il legame con
l'Iran confermato dalle armi ritrovate sulla Karin-A, nonché il fatto che è stata
violata la demilitarizzazione dell'ANP. Infine, a suo giudizio, benché possano esistere
fondamentalismi anche in campo ebraico e cristiano, è da quello islamico che oggi viene
la minaccia reale.
Burg ha infatti ripetuto che gli israeliani dubitano ormai che i palestinesi siano
incamminati sulla strada della pace e dei valori democratici occidentali, ritenendoli
esposti invece al radicalismo islamico. Per Israele si tratta di una questione
esistenziale e non tattica. A suo avviso, come è stata un errore la passeggiata di Sharon
sulla spianata delle moschee - che lui non avrebbe fatto anche se vi sorgeva il suo tempio
una volta - un altro errore l'ha compiuto Arafat che avrebbe conquistato finalmente
un'indiscutibile credibilità se non fosse caduto nella provocazione.
In conclusione, il Presidente della Knesset ha comunque voluto esprimere la speranza che
ci sarà la pace, purché non si molli la presa. Tuttavia, ha rimarcato che sono
soprattutto israeliani e palestinesi a doversene occupare, anche se ha imparato molto
dall'esperienza del Sud Africa.
Richiesta dal Presidente Selva di un punto di vista
sull'attuale stato delle relazioni tra israeliani e palestinesi, l'Onorevole Noemi
Blumenthal, deputato del Likud e vice-ministro per le infrastrutture, ha rievocato i
precedenti storici, a partire dalla fondazione dello Stato di Israele per il popolo
ebraico, all'indomani dell'Olocausto, sino alle successive guerre volute dagli arabi che
non hanno lasciato neanche un giorno di autentica pace agli ebrei. A suo avviso, la scelta
della trattativa è avvenuta solo quando Israele si è mostrata invincibile ed è venuta
meno l'Unione Sovietica: il risultato sono stati gli Accordi di Oslo, una
"follia" per cui Israele ha riportato il nemico nel suo seno. Lo scopo dei
palestinesi, che sono strettamene legati agli iraniani, infatti non sarebbe la pace,
bensì rendere invivibile la vita agli israeliani e spezzarne lo spirito. I cittadini
arabi di Israele sarebbero stati a loro volta oggetto di incitamenti alla rivolta. La vita
di tutti i membri del governo è in pericolo.
La deputata del Likud ha quindi affermato che ogni azione israeliana è in realtà una
reazione ad un duro attacco da parte palestinese. Mentre, forse grazie alla lobby ebraica,
Israele può contare sugli USA, l'Onorevole Blumenthal ha lamentato che dall'Europa sembra
trasparire la volontà di confinare gli ebrei in un nuovo ghetto. In realtà, l'esistenza
di uno Stato palestinese annullerebbe lo Stato ebraico, tra missili, mortai ed attentati.
Per fortuna, a suo avviso, mentre nel 1993 la maggioranza degli israeliani era pronta a
tutto pur di fare la pace, oggi l'80 per cento non ci crede più.
Maggiore ottimismo sarebbe invece possibile nei confronti dei rapporti con la Siria, in
quanto si ha a che fare con uno Stato stabile che non sogna più di distruggere Israele ed
è quindi pronto per un accordo sui territori, i confini e l'acqua, sul modello
sperimentato con Egitto e Giordania.
Alle osservazioni critiche dell'Onorevole La Malfa,
la deputata del Likud ha risposto che è consapevole delle sofferenze dei palestinesi, ma
che Israele ha diritto alla sua autodifesa. Il Presidente Selva ha concluso richiamando
l'esempio del popolo ebraico che ha conquistato la sua libertà ed invocando uno sforzo di
buona volontà per una pace giusta.
In apertura dell'incontro con le deputate Colette
Avital (Partito Laburista) e Noemi Chazan (Partito Meretz, Vice Presidente della Knesset),
il Presidente Selva ha posto la questione delle responsabilità del governo Sharon, emerse
nel corso della missione nei Paesi arabi, in quanto forza occupante cui si contrappone una
forza di resistenza.
L'Onorevole Avital, che appartiene alla corrente
moderata maggioritaria del Partito Laburista, ha risposto che non è utile cercare le
responsabilità che sono da entrambe le parti, pur ammettendo che in alcuni casi la
reazione israeliana è stata troppo dura. A suo avviso, si è persa un'occasione con il
Piano Barak, che era sostenuto dal 65 per cento degli israeliani (e tutt'oggi avrebbe il
consenso del 56 per cento), poiché Arafat non è stato in grado di accettarlo a causa del
diritto al ritorno. Comunque, occorrerebbe negoziare lo stesso.
È quindi intervenuta l'Onorevole Chazan, reduce dal
Sud Africa, ove ha incontrato alcuni esponenti palestinesi, per escludere che una
soluzione militare possa portare ad un accordo. Ha poi lamentato la reciproca diffidenza
fra le parti, accresciuta dalla spirale di violenza, per ribadire che non vi potrà essere
un solo minuto di pace senza la costituzione di uno Stato palestinese lungo i confini del
1967, salvo qualche piccolo aggiustamento (smantellando cioè e concentrando gli
insediamenti). Richiamando il consenso internazionale a questo proposito, ha ipotizzato
due strade: la prima passa per il cessate-il-fuoco, il ripristino della fiducia reciproca
e il negoziato (secondo l'impostazione Mitchell-Tenet); la seconda punta invece
direttamente sul negoziato per giungere all'accordo definitivo e sarebbe preferibile
perché accenderebbe da subito la speranza, che è la cosa oggi che più manca.
Rispondendo all'Onorevole Selva, Avital ha quindi
spiegato le ragioni della presenza del suo partito nel governo, pur essendoci una
spaccatura tra destra e sinistra. L'unità nazionale garantirebbe infatti che non siano
delegittimati gli accordi di Oslo e che non si giunga allo smantellamento dell'ANP (che
non sta all'interno dei confini, come taluni israeliani vorrebbero far credere), ma
piuttosto si sia accettato - grazie a Peres - il Rapporto Mitchell. È tuttavia Arafat,
che pure resta il legittimo interlocutore in quanto rappresentante dei palestinesi, che
tiene in vita, a suo avviso, il governo Sharon: se si profilasse una diversa prospettiva
di pace, la coalizione si rimescolerebbe facilmente.
La deputata laburista ha poi sottolineato quale deve essere il ruolo dei politici, e cioè
portare i rispettivi popoli dall'ostilità alla collaborazione, auspicando un più intenso
ruolo dell'Europa e dell'Italia.
Chazan ha invece inteso fornire un diverso punto di vista, e cioè l'impossibilità di
condividere responsabilità di governo con Sharon, perché in realtà si sta contribuendo
a indebolire l'ANP e si sta mettendo in pericolo la stessa democrazia interna israeliana e
quindi il sogno sionista. Lo Stato palestinese rappresenterebbe pertanto un interesse
superiore dello Stato israeliano affinché non smarrisca la sua identità. La verità, a
suo avviso, è che Arafat rafforza Sharon e viceversa.
La deputata del Meretz ha poi sottolineato la grande confusione dell'opinione pubblica
israeliana: il 60 per cento si dichiara contemporaneamente favorevole a Sharon, ma anche
allo Stato palestinese e allo smantellamento delle colonie. Occorrerebbe perciò negoziare
anche quando si spara.
Estremo favore è stato anche espresso da Chazan per il coinvolgimento dell'Europa e della
comunità internazionale, che devono continuare a sentirsi partecipi del processo di pace,
per la difesa delle popolazioni civili e l'eventuale monitoraggio degli accordi quando
fossero raggiunti.
La Vice Presidente della Knesset ha quindi riferito sull'incontro svoltosi in Sud Africa,
durato tre giorni alla presenza del Presidente M'beki e della Presidente del Parlamento,
Frene Ginwala. Ci sarebbe stata un'ampia intesa sul Piano Clinton, compresa la questione
dei profughi, dal momento che anche da parte palestinese c'è la consapevolezza che la
violenza non porterà a nulla. È paradossale, a suo giudizio, che esponenti politici che
vivono a 20 minuti di distanza debbano essersi incontrati così lontano.
È quindi intervenuta ancora l'onorevole Avital, che
ha auspicato la formazione anche negli altri Paesi europei di movimenti per la pace in
Medio Oriente, che facilitino gli incontri tra israeliani e palestinesi. Rispondendo
all'Onorevole Zacchera sui rapporti di forza interni alla Knesset, ha poi chiarito che ci
sono 19 partiti e che la situazione è fluida e l'orientamento verso la pace si
accentuerebbe in presenza di una soluzione valida. Ad oggi, 1/4 dei deputati sarebbe
assolutamente schierato in senso positivo.
All'osservazione dell'Onorevole Mantovani, che richiamava le responsabilità di Israele
verso l'Unione europea in quanto partner dell'Accordo di associazione, la deputata
laburista ha risposto che tale accordo ha natura essenzialmente economica benché presenti
comunque alcune opportunità, ma ha poi dato atto dell'assoluta volontà di Peres di
collaborare con tutti gli interlocutori europei, citando in particolare Solana, Moratinos
ed il ministro tedesco Fischer.
A giudizio di Chazan, si dovrebbe trarre una lezione
dalla vicenda del Sud Africa, in cui non si è usato il bastone e la carota, ma solo la
carota. Occorrono comunque incentivi esterni al processo di pace.
Rispondendo all'Onorevole Rivolta sul diritto al ritorno, Avital ne ha confermato la
gravità al punto che la stessa questione di Gerusalemme potrebbe avere più facile
definizione. Tuttavia, si sta facendo strada tra molti palestinesi la consapevolezza che
si tratta di un tema per le prossime generazioni. La deputata laburista ha quindi evocato
un'ulteriore opzione che è all'esame del mondo politico israeliano, e cioè la
separazione unilaterale, da realizzarsi secondo quanto previsto dal Piano Barak (e cioè
radunando l'80 per cento dei coloni sul 3 per cento dei territori). In conclusione,
secondo Avital, non è lo Stato palestinese che spaventa Israele, purché esso nasca a
certe condizioni, e cioè smilitarizzato e con i confini presidiati da Israele almeno in
una fase iniziale per evitare i veri pericoli che provengono invece dall'Iran e dall'Iraq.
Il Ministro degli Esteri e Vice Primo Ministro dello
Stato di Israele, Shimon Peres, in apertura dell'incontro, ha apprezzato gli ottimi
rapporti con l'Italia ed il sincero e caloroso interesse italiano per il processo di pace.
Il Presidente Selva ha quindi spiegato il senso
della missione parlamentare, soffermandosi sull'aspirazione a partecipare nella misura del
possibile al processo di pace.
Peres ha esordito affermando che sembra esserci più
facilità di intesa sulla soluzione che non sulla strada per raggiungerla. A suo avviso,
oggi il Blocco per la Pace in Israele soffre della perdita di credibilità di Arafat, che
a suo tempo ha respinto il Piano Barak ed ora non sembra in grado di controllare l'ANP,
senza contare i recenti episodi del sequestro della Karin-A e dell'uccisione di quattro
soldati israeliani a Gaza. Ne sarebbe nato un clima di diffidenza ed insicurezza: in
Israele ci sono opinioni diverse, ma c'è un solo esercito; nell'ANP c'è forse una sola
opinione, ma ci sono diversi gruppi armati.
Il Ministro ha comunque ribadito che lo scopo finale è la creazione dello Stato
palestinese, per il cui raggiungimento le distanze materiali sono inferiori a quelle
psicologiche. Israele è favorevole per tre ragioni: sul piano morale, non vuole essere
una potenza dominatrice; la pace può essere conquistata solo con l'accordo fondato sul
compromesso; la tutela dello Stato ebraico sul piano demografico impone di dividersi dai
palestinesi, altrimenti si rischia la "libanizzazione" dello stato e la fine
della democrazia. Poiché lo Stato ebraico ha richiesto tanti sforzi e sacrifici, non si
può a suo avviso tuttavia oggi metterne a repentaglio l'esistenza.
Peres ha quindi tracciato un quadro del mondo all'indomani dell'11 settembre, cui ha fatto
seguito l'emersione del lato oscuro della globalizzazione e la disintegrazione dei vecchi
schemi. Escludendo recisamente che il terrorismo possa essere identificato con
l'islamismo, ha respinto l'idea della guerra di religione ed auspicato che siano gli
stessi musulmani a cambiare, così come nella storia è cambiato il cristianesimo (il Papa
non è più quello dell'Inquisizione). È però da rilevare, a suo giudizio, che oggi su
55 Stati musulmani nessuno sia democratico, viva in pace e conosca lo sviluppo, tranne la
Turchia.
Secondo il Ministro israeliano, il vero problema che è alla radice della povertà, in un
mondo che è ormai dominato dalla scienza e dalla tecnologia, non è l'imperialismo oppure
il colonialismo dei Paesi ricchi, ma piuttosto la corruzione che spesso si ammanta della
religione nei Paesi poveri, come dimostrano i casi dell'Arabia Saudita e dell'Iraq. Quando
gli stessi governi sono corrotti e compiono delitti, diverrebbe facile che all'interno di
quei Paesi nasca e si alimenti il terrorismo (come nel caso di Bin Laden).
Peres ha allora auspicato che il popolo palestinese trovi diversamente la sua strada e si
è detto fiducioso su Arafat e su Abu Ala, affermando che i veri nemici sono il
terrorismo, la violenza, la guerra, non i palestinesi. A suo avviso, oggi si deve dividere
Israele per dare vita allo Stato palestinese: occorre quindi fare al contrario di
Garibaldi, che ha invece unito l'Italia.
Rispondendo all'Onorevole Zacchera sull'eventualità
di un accordo separato con la Siria, il Ministro israeliano ha espresso le sue
perplessità, anche per il fatto che il governo di quel Paese non si è ancora
stabilizzato ed il figlio di Assad non è più forte del padre. Israele è comunque
d'accordo a trattare senza condizioni pregiudiziali sulla base delle risoluzioni dell'ONU.
Analogamente perplesso si è poi mostrato a proposito dell'ipotesi di abrogare l'embargo
all'Iraq, sollevata dallo stesso Onorevole Zacchera, in quanto sarebbe necessario che
Saddam Hussein accettasse il ritorno degli ispettori delle Nazioni Unite. L'Iraq sarebbe
infatti più vicino dell'Iran al nucleare e raccoglierebbe missili a lungo raggio. Anche
la Russia, che pure è contraria ad un attacco, insiste sulla sorveglianza da parte
dell'ONU.
All'Onorevole Boato, Peres ha poi precisato che il
60 per cento dell'opinione pubblica israeliana è favorevole ai suoi colloqui con Abu Ala,
che sono informali ma sono avvenuti tra persone dotate di autorità formali, a differenza
di quelli svoltisi a titolo privato recentemente in Sud Africa, di cui ha parlato il
Presidente della Knesset. Quanto all'Iran, sempre rispondendo all'Onorevole Boato, ha
ricordato che ha sempre finanziato il terrorismo ed in particolare gli hezbollah, ma anche
Hamas e la Jihad. La vicenda della nave Karin-A confermerebbe il coinvolgimento iraniano.
Del resto, Peres ha ricordato che l'ex Presidente Rafsanjani, benché l'abbia poi
smentito, aveva dichiarato che il suo Paese ricercava il nucleare per sopprimere Israele
(cosa che nell'opinione di Peres sarebbe come una riedizione delle camere a gas). A suo
giudizio, l'Iran è dunque dominato dalla volontà di distruggere Israele, anche a causa
del dualismo di governo, religioso e politico, che lo caratterizza.
Ritornando sul ruolo di Arafat, per una domanda
dell'Onorevole Spini, Peres ha confermato di considerarlo il leader liberamente eletto
dell'ANP, ma ha lamentato che oggi non c'è una sola ANP, in quanto Arafat non controlla i
vari gruppi armati che dovrebbe anzi reprimere con quello stesso coraggio che usò Ben
Gurion al tempo della fondazione dello Stato di
Israele contro gli estremisti della sua stessa
parte. Lamentando inoltre che si sia fatto coinvolgere nel traffico d'armi della Karin-A,
Peres ha tuttavia addossato a Sharon la scelta di tenere Arafat bloccato a Ramallah, in
quanto così lo si costringerebbe a tenere più sotto controllo la situazione interna,
concludendo di non ammirare tale linea ma neanche di poter subire i continui errori dello
stesso Arafat.
Rispondendo quindi all'Onorevole Monaco sulla
sequenza che potrebbe condurre alla pace, il Ministro israeliano ha ribadito che ci vuole
prima un vero cessate-il-fuoco e la cessazione delle azioni terroristiche e poi si potrà
riaprire la trattativa.
Quanto alla posizione israeliana sull'eventualità
dell'estensione del conflitto per la lotta al terrorismo internazionale, oggetto di una
domanda dell'Onorevole Ballaman, Peres ha precisato che il suo Paese non è in grado di
affrontare Iran ed Iraq, ma che il mondo intero non può più tollerare il terrorismo, per
cui quegli Stati saranno coinvolti se non cesseranno la loro attività in quella
direzione. Ha poi sottolineato i passi avanti compiuti dal Pakistan a fronte
dell'aggressione terroristica subita il 13 dicembre 2001 dall'India, nel cuore della
democrazia più grande del mondo. La situazione pakistana, in cui la religione produce la
violenza, è a suo avviso paragonabile a quella palestinese, con l'aggravante
dell'arsenale nucleare, per cui il mondo è in ansia nel timore che possa passare sotto il
controllo del fondamentalismo.
In relazione al ruolo dell'Unione europea, rilevato
dal Presidente Selva, il Ministro israeliano ha affermato di considerarlo di primo piano,
apprezzando anche l'assistenza all'ANP e l'idea del Presidente del Consiglio italiano di
un nuovo Piano Marshall. Tuttavia, a suo avviso, l'Unione europea e gli USA devono
procedere di conserva, altrimenti palestinesi ed israeliani si dividerebbero
ulteriormente. La pressione internazionale su Arafat deve mantenersi unitaria per evitare
lo "strabismo" politico di appoggiarsi all'uno o all'altro dei partners.
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Missione svolta a
Berlino (14-15 maggio 2002)
Su invito della Commissione esteri del Bundestag,
una delegazione della Commissione affari esteri della Camera dei deputati si è recata in
missione a Berlino il 14 e 15 maggio.
La delegazione, composta dal Presidente Gustavo Selva e dai deputati Laura Cima, Giuseppe
Naro, Umberto Ranieri, Dario Rivolta e Cesare Rizzi, ha avuto incontri con la Commissione
esteri del Bundestag e con il Ministro per gli Affari europei, Christoph Zoepel.
L'incontro con la Commissione del Bundestag è stato introdotto dai Presidenti delle due
Commissioni, Hans Ulrich Klose e Gustavo Selva.
Il Presidente Selva ha evidenziato la fondamentale importanza dei rapporti bilaterali tra
Italia e Germania e il parallelismo del cammino delle due Nazioni sulla strada sinora
compiuta per giungere alla costruzione europea. Il Presidente Selva ha proseguito
sottolineando che i prossimi passi in questo cammino sono di particolare rilievo, a
cominciare dalla questione dell'allargamento dell'Unione, nella quale gli aspetti politici
prevalgono su quelli economici; il ruolo assunto dall'Europa nei Balcani è già
significativo di una nuova realtà, ma è necessario svilupparlo ulteriormente e
completare l'opera intrapresa. Il Presidente Selva ha poi rammentato infine che l'Italia
è particolarmente attenta agli sviluppi della vicenda medio-orientale.
Il deputato Gert Weisskirchen (SPD) ha manifestato preoccupazioni per la situazione
olandese e gli avvenimenti recentemente accaduti in quel Paese; a suo dire, tali
avvenimenti rappresentano la spia di un più generale malessere al quale bisogna dare
risposta sulla base dei valori europei. Solo in questo modo, infatti, la costruzione
dell'Europa potrà continuare ad essere una prospettiva "attraente" per i popoli
del continente, Il deputato Weisskirchen ha poi auspicato che le Commissioni possano
nuovamente incontrarsi, eventualmente nella sede di Villa Vigoni.
Il deputato Andreas Shocknehoff (CDU/CSU), riferendosi a talune polemiche svoltesi in
Germania all'epoca dell'insediamento del Governo di centro-destra in Italia, ha anzitutto
evidenziato che il cambiamento di maggioranza nel nostro Paese non ha sollevato alcuna
reale preoccupazione in Germania, ed ha inoltre osservato che spesso talune posizioni che
possono sembrare di "interferenza" sono assunte per mere ragioni di politica
interna. Il deputato Shocknehoff ha poi sottolineato che la regione dei Balcani potrà
essere effettivamente stabilizzata solo in una prospettiva di integrazione europea ed ha
concordato, infine, sulla opportunità di un nuovo incontro delle Commissioni.
Il deputato Helmut Lippelt (dei Verdi), ricollegandosi alla parte dell'intervento del
deputato Shocknehoff sulle polemiche avutesi in Germania all'epoca della svolta politica
italiana, ha ritenuto che esse non fossero suscitate dal cambiamento di maggioranza,
quanto dalla questione dei rapporti tra la politica ed i media. Il deputato Lippelt, dopo
aver sottolineato che questo problema riguarda anche la Germania e aver rammentato al
riguardo la vicenda del gruppo Kirch, ha chiesto quali iniziative siano state assunte in
Italia sul tema. Soffermandosi sulla situazione dei Balcani, il deputato Lippelt ha
sottolineato la particolare situazione del Kosovo, che a suo dire è ora di fronte ad un
bivio, e, infine, ha chiesto quanti dei tredici palestinesi già assediati nella Basilica
della Natività a Betlemme potrebbero giungere in Italia.
Il deputato Helmut Hausmann (FDP) ha chiesto quali valutazioni prevalgano in Italia sulla
eventuale istituzione della figura di un Ministro degli esteri europeo e quali si ritiene
debbano essere i punti fondamentali sui quali incentrare il lavoro della Convenzione sul
futuro dell'Europa. Il deputato Hausmann ha inoltre sottolineato l'importanza della
stabilità della moneta unica, della quale si è dichiarato fautore e sostenitore.
Il deputato Wolfgang Gehrcke (PDS), dopo aver ritenuto ovvio che bisogna accettare i
risultati di elezioni democratiche, ha fatto tuttavia presente che "non è
obbligatorio essere felici e non è vietato essere preoccupati"; bisogna, piuttosto,
lavorare per fugare eventuali preoccupazioni. Il deputato Gehrcke ha inoltre auspicato che
in una futura Costituzione europea sia presente una "clausola antifascista".
Il Presidente Gustavo Selva, dopo aver concordato sull'opportunità di un nuovo incontro
delle Commissioni, ha rammentato le profonde e sostanziali trasformazioni della Destra
italiana negli ultimi anni ed ha sottolineato che tale irreversibile evoluzione non
consente in alcun modo di dubitare della profonda democraticità di una parte politica che
si riconosce pienamente nei valori e nella tradizione della Destra europea.
Il deputato Umberto Ranieri ha quindi sottolineato la profonda convergenza di Italia e
Germania sui temi della costruzione europea - convergenza che trova oggi una solida base
comune nell'impegno per una rapida integrazione - ed ha rammentato che gli sforzi
congiunti dei due Paesi durante la fase di negoziazione del Trattato di Nizza hanno
consentito di raggiungere risultati quali l'ampliamento delle cooperazioni rafforzate e il
Protocollo sul futuro dell'Europa.
Il deputato Ranieri ha anche osservato che l'Unione manifesta sempre più i tratti di un
soggetto politico unitario, con particolare riguardo alla politica estera e di sicurezza
comune. Dopo aver fatto presente che la prosecuzione della costruzione europea non implica
un indebolimento del rapporto con gli Stati Uniti d'America, il deputato Ranieri ha
concluso ritenendo che bisogna rinnovare gli sforzi per l'integrazione dei Balcani, un
tema che a suo dire sembra aver perso slancio negli ultimi tempi.
Il deputato Dario Rivolta ha anzitutto ritenuto auspicabile l'istituzione della figura del
Ministro degli esteri europeo, sottolineando al contempo la necessità di continuare a
sviluppare il rapporto di amicizia con gli Stati Uniti d'America. Dopo aver evidenziato il
successo dell'introduzione dell'euro - evento che non ha creato difficoltà ai cittadini
ma ne creerà semmai ai Governi per la necessità di rispettare il Patto di stabilità -
il deputato Rivolta si è soffermato sulla questione dei rapporti tra politica e media.
Al riguardo, il deputato Rivolta ha sostenuto che in Italia non esiste alcun pericolo di
commistione, in quanto "il novanta per cento della stampa è contraria o
indifferente" all'attuale maggioranza, e le stesse televisioni del gruppo che fa capo
al Presidente del Consiglio sono considerate "non favorevoli" allo stesso. Il
deputato Rivolta ha proseguito evidenziando come la sua parte politica ritenga
"inaccettabile che il potere politico possa condizionare i media", e,
soffermandosi sul punto, ha rammentato che già nel 1994 il Governo Berlusconi I aveva
presentato un disegno di legge per disciplinare il conflitto di interessi; negli anni
successivi ha sostenuto il deputato Rivolta "le opposizioni scientemente non hanno
voluto risolvere il problema", mentre l'attuale maggioranza è subito intervenuta sul
tema e il relativo disegno di legge è ora in corso di approvazione.
Il deputato Laura Cima si è soffermata sulla questione dell'immigrazione, ritenendo che
essa sia spesso utilizzata a meri scopi propagandistici, e sui temi dell'ambiente, in
particolare auspicando che la Germania contribuisca alla definizione della posizione
europea in vista delle prossime Conferenze di Bali e Johannesburg.
Il deputato Cesare Rizzi ha rammentato che la sua parte politica è favorevole ad
un'Europa che sia un'Europa dei popoli e al rafforzamento dell'euro. Il deputato Rizzi ha
inoltre ritenuto che in Europa siano entrati troppi immigrati clandestini ed ha
sottolineato la necessità di un rigoroso sistema di controlli.
Il deputato Giuseppe Naro ha evidenziato la posizione comune sulle principali tematiche
europee e, soffermandosi sulle questioni della sicurezza e dell'immigrazione, ha osservato
come una legislazione comune potrebbe essere di grande aiuto per affrontare e risolvere
problemi così gravi.
Il Presidente Hans Ulrich Klose, dopo aver fatto presente che non bisogna minimizzare
l'importanza del contributo militare europeo alla soluzione delle crisi internazionali, ha
infine chiuso i lavori delle Commissioni auspicando un prossimo incontro, che potrebbe
aver luogo dopo lo svolgimento delle prossime elezioni politiche in Germania.
Il Ministro per gli Affari europei, Christoph Zoepel ha rammentato che in Germania è in
svolgimento una appassionante campagna elettorale in vista delle elezioni politiche che
avranno luogo in settembre, il cui esito è incerto. La politica estera, tuttavia, ha
affermato il Ministro Zoepel, non è tra i temi principali della campagna, anche perché
le posizioni dei due schieramenti non si differenziano molto; in particolare, in tema di
politica europea non si registrano differenze di sorta.
Il Presidente Gustavo Selva ha anzitutto evidenziato come anche in Italia si registri in
materia di politica estera un atteggiamento "bipartisan", per poi sottolineare
come nelle recenti vicende medio-orientali paia finalmente profilarsi una politica estera
europea. Il Presidente Selva ha inoltre sottolineato l'importanza della concreta
partecipazione della Germania alla soluzione del problema dei tredici miliziani
palestinesi e, dopo aver ritenuto "sconcertanti" le voci secondo le quali
l'accoglienza dovrebbe essere offerta solo da Paesi in cui è prevalente la religione
cattolica, ha chiesto quali fossero gli orientamenti del governo tedesco sulla questione.
Il Ministro Zoepel ha quindi fatto presente di aver appena preso parte ad una riunione
dell'esecutivo dedicata al tema. Nella riunione è emersa la necessità di approfondire le
modalità con le quali i Paesi ospitanti possono svolgere una adeguata opera di
sorveglianza sugli eventuali ospiti. Ad avviso del Ministro dell'interno, ha riferito il
Ministro Zoepel, prima di assumere una decisione bisogna chiarire come svolgere tale
sorveglianza senza creare rischi per la sicurezza interna.
Il Presidente Selva, dopo aver osservato che la definizione dello status giuridico dei
palestinesi in questione è in effetti il problema di fondo in questa fase, ha rammentato
le iniziative della Camera dei Deputati per contribuire allo sviluppo del processo di pace
in Medio-oriente e ritenuto essenziale lo scambio e il confronto delle opinioni a tal
fine.
I deputati componenti la delegazione hanno quindi posto alcune questioni e chiesto
chiarimenti al Ministro Zoepel. Il deputato Ranieri ha chiesto un giudizio sui lavori
della Convenzione europea e sulle prospettive e i tempi dell'allargamento dell'Unione,
mentre il deputato Rivolta ha chiesto di precisare la posizione della Germania sul
progetto Galileo. Il deputato Naro ha chiesto in che termini la questione dei Sudeti e il
relativo contenzioso con Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia possano essere di ostacolo
all'ingresso di questi Paesi nell'Unione, mentre il deputato Cima ha chiesto di precisare
quale posizione assumerà alla Convenzione europea la Germania sulla politica estera e di
sicurezza comune. Il deputato Rizzi, infine, ha chiesto chiarimenti sulla posizione della
Germania in materia di immigrazione.
Il Ministro Zoepel si è anzitutto soffermato sull'immigrazione, sottolineando come la
politica seguita in materia sino a poco tempo fa era "del tutto irrazionale".
Chiunque poteva provare di avere parenti tedeschi aveva diritto ad un passaportotedesco, e
così è successo che sono diventati tedeschi alcuni che parlavano solo russo; il novanta
per cento delle domande di asilo venivano respinte dai Tribunali, che però impiegavano
dieci anni a farlo. La legislazione ha subito recentemente una profonda riforma, per cui
il criterio dello ius sanguinis è stato sostituito da quello dello ius soli; la riforma
è stata accompagnata da discussioni e polemiche, ma tra pochi anni, ad avviso del
Ministro, "saranno i vecchi a chiedere di essere mantenuti" dai nuovi arrivati.
Sulla questione dell'allargamento, il Ministro Zoepel ha anzitutto ritenuto che i prossimi
membri saranno dieci. Sulla questione dei Sudeti, il Ministro ha osservato che le
polemiche con la Polonia sono "un po' artificiali", mentre più seri sono i
problemi aperti con la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Il Ministro Zoepel ha rammentato
che sin dal 1989 il Governo tedesco si è impegnato a non mettere in relazione le vicende
occorse all'epoca del secondo conflitto mondiale con la questione dell'allargamento; si
tratta di rivendicazioni che dovrebbero semmai essere decise da un tribunale europeo, ma
delle quali, comunque, non bisogna parlare ora. La vera risposta ai problemi lasciati
insoluti dalla seconda guerra mondiale è l'Unione europea.
I punti qualificanti del lavoro della convenzione europea, ad avviso del Ministro,
dovrebbero essere l'attribuzione al Parlamento europeo della nomina del
"Governo" una migliore definizione della competenza a legiferare e il
raggiungimento della trasparenza della legislazione.
Il Ministro Zoepel ha inoltre ritenuto che sulla istituzione di un Ministro europeo degli
affari esteri ci sarebbe l'unanimità dei consensi ed ha pienamente concordato con le
valutazioni del Presidente Selva sulla situazione mediorientale. Infine, il Ministro
Zoepel ha ritenuto indispensabile che l'Unione disponga di un proprio autonomo sistema
informativo e si è dunque dichiarata "molto a favore" del progetto Galileo, che
dovrà essere realizzato prima possibile.
Il deputato Rivolta ha quindi chiesto se la Germania intenda riconoscere un indennizzo ai
militari italiani che nel corso del secondo conflitto mondiale furono internati in campi
di lavoro.
Il Ministro Zoepel ha fatto presente che sin dagli anni cinquanta il Governo tedesco ha
cercato di risarcire le vittime del regime nazista; questo, però, sempre nell'ambito di
Accordi tra Stati, evitando di iniziare procedimenti con singoli cittadini. Il Ministro,
tuttavia, non ha escluso che possa trovarsi una soluzione alternativa.
Il Presidente Selva, in conclusione, ha sottolineato l'altissimo valore simbolico della
recente visita del Presidente Rau a Marzabotto.
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Missione in Bulgaria e
Romania (23-25 giugno 2002)
Una delegazione della Commissione composta dal
Presidente Gustavo Selva e dal Vice Presidente Dario Rivolta si è recata in missione a
Sofia e Bucarest dal 23 al 25 giugno 2002.
BULGARIA
A Sofia la delegazione ha incontrato il giorno 23
giugno, in occasione di un pranzo presso l'Ambasciata d'Italia, il Primo Ministro Simeone
di Sassonia Coburgo e personalità del mondo imprenditoriale e culturale. Nella giornata
del 24 giugno si sono svolti incontri con il Presidente della Commissione Affari esteri
dell'Assemblea nazionale bulgara, Stanimir Ilchev, e con i tre Vice Presidente, Dimitar
Abadjiev, Irina Bokova e Yunal Liutfi, nonché con il Presidente della Commissione
Integrazione europea dell'Assemblea nazionale, Daniel Valtchev, e con il gruppo
parlamentare di amicizia Italia-Bulgaria, presieduto da Yuliana Doncheva. La delegazione
ha inoltre incontrato il Ministro degli Affari esteri, Solomon Passy.
Gli incontri hanno avuto come argomento primario
l'ingresso della Bulgaria nella NATO e nell'Unione europea.
È emersa da ogni parte la forte attesa che nel
corso del Vertice di Praga del prossimo novembre ci sia l'invito formale alla Bulgaria ad
entrare nella NATO, corredato di un preciso scadenzario. Al riguardo il Presidente Selva
ha confermato, sia nel corso degli incontri parlamentari sia nelle conversazioni con il
Primo Ministro ed il Ministro degli affari esteri, il pieno favore dell'Italia a che la
Bulgaria persegua tale obiettivo insieme a quello comunitario.
Tutti gli interlocutori hanno sottolineato il grande impegno della Bulgaria
nell'ammodernamento delle Forze armate in conformità agli standard della NATO, aspetto
sul quale numerose sono le occasioni che si offrono alle imprese anche italiane. Con
riguardo a questo profilo il Presidente Selva ha posto l'accento sull'impegno italiano
nella collaborazione nel settore della difesa per contribuire alla ristrutturazione ed
all'ammodernamento del sistema di comunicazioni militari, che ha visto l'impegno della
Marconi e che ha consentito alla Bulgaria di partecipare con una propria Brigata alle
esercitazioni ed alle operazioni di pace della NATO, condizione essenziale per aspirare ad
essere invitata ad entrare nell'Alleanza in occasione del Vertice di Praga del prossimo
novembre. Al riguardo il Presidente Ilchev ha chiarito che l'appoggio italiano per
l'ingresso nella NATO è indispensabile e che tale impegno deve accompagnarsi ad un
coinvolgimento delle imprese italiane specializzate. Il Presidente Selva ha quindi
ribadito che il contratto con la Marconi non deve rimanere un caso isolato nonostante la
forte concorrenza di altre imprese straniere. L'argomento è stato ulteriormente trattato
nel corso dell'incontro con il Ministro Passy, che ha auspicato l'ingresso nella NATO per
il 2006, precisando come tale avvenimento possa portare ricadute positive per l'economia
bulgara, come dimostra quanto sta avvenendo per l'Ungheria, la Polonia e la Repubblica
Ceca.
Quanto all'ingresso nell'Unione europea, è stata
posta la necessità che la Bulgaria non sia lasciata fuori dai dodici Paesi candidati.
Infatti nel Vertice di Laeken dieci Paesi sono stati indicati per essere ammessi entro il
2004; invece per Bulgaria e Romania il processo di adesione dovrebbe concludersi un paio
di anni più tardi. Per tale ragione l'adesione alla NATO è considerata di particolare
importanza, affinché la Bulgaria non sia doppiamente esclusa dalle due organizzazione,
con pesanti ricadute interni in termini politici ed economici.
Gli interlocutori della delegazione hanno sottolineato il forte impegno nel chiudere tutti
i capitoli necessari alla stipulazione dell'accordo di adesione. In caso contrario è
stato segnalato il rischio di ricadute negative per l'economia nazionale, dopo i
consistenti investimenti fatti verso questo obiettivo.
Sull'argomento si è in particolare incentrato l'incontro con il Presidente Valtchev, che
ha preliminarmente illustrato le competenze della Commissione integrazione europea
dell'Assemblea nazionale bulgara, la cui peculiarità è che le decisioni sono prese
sempre all'unanimità.
Il Presidente Selva ha quindi ricordato le questioni ancora da affrontare dalla Bulgaria
nella prospettiva dell'adesione dell'Unione europea indicate nella risoluzione del
Parlamento europeo sullo stato di avanzamento dei negoziati per l'allargamento, del 13
giugno 2002 (2002)0317. In particolare ha messo in rilievo il mancato utilizzo di
consistenti fondi comunitari dovuto ad ostacoli di ordine burocratico ed il fatto che
rimangono aperti ancora numerosi capitoli negoziali.
Il Presidente Valtchev ha sottolineato che la Bulgaria si colloca nella media dei Paesi
candidati quanto all'utilizzo dei fondi comunitari preadesione (PHARE, ISPA e SAPARD), che
rappresentano il 2-2,2 per cento del PIL (peraltro basso per le caratteristiche del Paese)
e che le ragioni del mancato completo utilizzo sono da ricercare in carenze di
informazioni e dell'organizzazione amministrativa.
In particolare ha detto che il meccanismo di finanziamento comunitario presuppone la
fornitura di una documentazione spesso difficile da raccogliere. Inoltre tale
finanziamento è in realtà un co-finanziamento, per il quale i fondi sono concessi solo
se con essi concorre un finanziamento a carico dello Stato bulgaro per quote oscillanti
tra il 30 per cento ed il 50 per cento. Inoltre i fondi comunitari sono erogati solo a
conclusione dell'investimento.
Il Vice Presidente Rivolta, con particolare riferimento alla questione dell'ingresso della
Bulgaria nell'Unione europea, ha precisato che occorre evitare un'adesione troppo
precipitosa, che potrebbe determinare effetti controproducenti per l'economia bulgara.
Il Presidente Selva ha inoltre voluto conoscere la
posizione della Bulgaria in ordine alla crisi in Medio Oriente. Al riguardo il Presidente
Ilchev, nel sottolineare la gravità del problema, ha rilevato che l'interruzione degli
atti di violenza è presupposto indispensabile per avviare trattative di pace e ha
ricordato che la Bulgaria si era offerta di ospitare una Conferenza di pace per il Medio
Oriente. Ha inoltre precisato gli ottimi rapporti che legano la Bulgaria a tutti i Paesi
del Medio Oriente.
Nel rammentare la visita svolta in quella regione da una delegazione parlamentare da lui
guidata, il Presidente Selva ha sottolineato che è obiettivo dell'Italia garantire la
sicurezza del popolo israeliano e confini internazionalmente riconosciuti per i Paesi
finitimi e che occorre che l'Autorità nazionale palestinese contribuisca concretamente a
far cessare gli atti di terrorismo.
Nell'incontro con il Ministro Passy è stata in particolare chiarita la posizione di
favore della Bulgaria per la creazione di uno stato palestinese autonomo, obiettivo reso
difficile da raggiungere sia per la sostanziale incapacità di Arafat di contrastare il
terrorismo sia per la diffusa corruzione tra i dirigenti palestinesi, che impedisce
ulteriori evoluzioni in senso democratico dell'ANP.
Con riferimento alla questione della crisi
balcanica, posta dal Vice Presidente Rivolta, il Ministro Passy ha chiarito che tra i
fattori originari vi è sicuramente un problema di mentalità, analogamente a quanto
rilevabile per la crisi israelo-palestinese. Per contrastarlo occorre cominciare a
modificare i parametri di lettura della storia passata, come illustrata nei libri di testo
sui quali studiano le nuove generazioni. Con particolare riferimento al Kosovo, il
Ministro Passy ha espresso l'opinione personale per la quale il Kosovo dovrebbe mantenere
l'attuale situazione di indipendenza de facto, in virtù della quale discutere
autonomamente dei problemi che lo interessano. Sulla questione la Vice Presidente Bokova
ha peraltro rilevato la tendenza a ridurre l'attenzione sui problemi dei Balcani dopo i
fatti dell'11 settembre, che hanno obbligato tutti i Paesi a fronteggiare la minaccia del
terrorismo tralasciando altre pericolose questioni regionali ancora aperte.
A fronte della sollecitazione del Presidente Selva a
che la Bulgaria sostenga la candidatura italiana ad entrare nel Consiglio di sicurezza
dell'ONU nel 2006, il Ministro Passy ha sottolineato che tale candidatura concorre con
quelle del Belgio e dell'Australia e che il suo Paese si allineerà con la posizione che
sarà adottata dagli altri Paesi interessati, secondo il metodo del consensus,
riservandosi peraltro un più approfondito esame della questione.
Infine il Presidente Selva ha rilevato la necessità
di mantenere stretti rapporti culturali tra i due Paesi, rilevando la creazione di una
sede autonoma dell'Istituto italiano di cultura.
Il Vice Presidente Rivolta ha quindi prospettato
alcuni temi specifici. In primo luogo ha chiesto l'opinione del Presidente Ilchev circa i
rapporti tra Bulgaria e Russia dopo il Vertice di Pratica di Mare, che ha avvicinato in
modo irreversibile la Russia alla NATO. Ha quindi chiesto se ci sia un futuro per i
corridoi per il trasporto di petrolio e di gas naturali attraverso la Russia, rilevando in
particolare il progetto di un oleodotto dall'Azerbaigian alla Turchia, senza passare dalla
Russia. Ha infine ricordato la questione dei bulgari prigionieri in Libia.
Il Presidente Ilchev, con riferimento al primo argomento, ha sottolineato come USA e
Russia possano lavorare insieme contro il terrorismo. La Bulgaria sta cercando di
recuperare i propri rapporti con la Russia, che negli ultimi anni sono risultati
"distrutti". Sotto questo profilo ha negato che ci sia un qualche disagio della
Bulgaria rispetto a tale situazione nella prospettiva del relativo ingresso nella NATO.
Infatti la Bulgaria gode di una posizione autonoma nelle relazioni con la Russia, peraltro
molto migliorate già rispetto ad un solo anno prima. In relazione al secondo quesito
Ilchev ha chiarito che la Bulgaria è interessata allo sviluppo di tutti i corridoi con la
Russia. Non ha invece offerto alcuna risposta al terzo quesito. Inoltre è stata rilevata
la posizione strategica della Bulgaria, che dovrebbe renderla partner essenziale per i
paesi confinanti nello sviluppo dei futuri gasdotti. In particolare il Ministro Passy ha
precisato che la Bulgaria ha due progetti primari: uno prevede il percorso
Russia-Bulgaria-Grecia e l'altro Bulgaria-Macedonia-Albania. Con riferimento all'oleodotto
dall'Azerbaigian alla Turchia, ha quindi chiarito che si tratta di un progetto
particolarmente supportato dagli Stati Uniti.
Sull'argomento delle risorse energetiche è intervenuto anche il Presidente della
Commissione parlamentare per l'energia, Bliznakov, che ha ricordato come nel recente
programma energetico nazionale si prevede uno sviluppo bilanciato delle risorse
energetiche convenzionali e del nucleare. Sotto questo aspetto ha sottolineato che - a
fronte del problema della centrale nucleare sul Danubio, all'esame della Comunità, che ne
richiede la chiusura in quanto ritenuto strutturalmente non sicuro - si intende pervenire
alla sola chiusura dei blocchi 1 e 2 ed alla completa modernizzazione dei blocchi 3 e 4,
completamente diversi dai primi e per i quali ci sono stati grossi investimenti per
aumentarne la sicurezza. Al riguardo, nel corso dell'incontro con il Presidente Valtcheve,
il Presidente Selva ha prospettato come il deficit di energia che potrebbe derivare da una
completa chiusura dell'impianto potrebbe essere coperto con nuove collaborazioni con
imprese italiane, suggerendo il progetto di ENEL Power, per il complesso idroelettrico di
Gorna Arda, ed il progetto di Edison per acquisire una centrale termoelettrica vicino a
Varna. In tal modo sarebbe possibile chiudere il capitolo ambiente, ancora aperto,
superando i rischi paventati dalla Comunità europea. Il Presidente Valtchev ha peraltro
precisato che l'argomento non rientra nel capitolo ambiente ma nel capitolo energia e che
allo stato il suo Paese non riconosce rischi ambientali, nemmeno rispetto alla centrale
nucleare sul Danubio.
Gli incontri si sono conclusi con l'auspicio di
entrambe le parti per un'intensificazione delle relazioni bilaterali, peraltro ottime. Il
Presidente Selva ha confermato la disponibilità ad incontrare in futuro a Roma una
delegazione parlamentare bulgara.
ROMANIA
A Bucarest la delegazione ha incontrato il giorno 24
giugno il Primo Ministro Adrian Nastase ed il Vice Ministro per gli Affari esteri, Mihnea
Motoc. Il 25 giugno ha incontrato il Presidente della Camera, Valer Dorneanu, e una
delegazione della Commissione Affari esteri della Camera, presieduta da Radu Podgoreanu,
allargata ad alcuni componenti della Commissione Affari esteri del Senato, delle
Commissioni Difesa di Camera e Senato e della Commissione bicamerale per l'integrazione
europea. Ha inoltre svolto una visita al Centro regionale per la lotta al crimine
transfrontaliero nell'ambito della Southeast European Cooperative Initiative (SECI).
I contatti con gli interlocutori parlamentari si
sono aperti con l'incontro con il Presidente Dorneanu, che ha sottolineato che in Italia
il primo consolato rumeno è stato aperto nel 1870, confermando le relazioni da sempre
ottime tra i due Paesi. Su impulso del Presidente Selva, che gli ha trasmesso il saluto
del Presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini e che, incoraggiando le riforme in
atto, ha sottolineato la caratterizzazione indiscutibilmente democratica del Paese, il
Presidente Dorneanu ha ricordato che nell'ultima Conferenza dei Presidenti dei parlamenti
dei Paesi europei è stato sottolineato il ruolo delle assemblee parlamentari
nell'architettura europea, come sede di rappresentazione dei popoli. Al riguardo è emerso
come nel Parlamento rumeno siano rappresentate tutte le minoranze presenti nello Stato.
Anche a Bucarest gli incontri hanno avuto come
argomento primario l'ingresso della Bulgaria nella NATO e nell'Unione europea.
Il Presidente Selva ha sempre sottolineato
l'interesse italiano all'ingresso della Romania nella NATO, dicendosi fiducioso che un
invito in tal senso potrà giungere in occasione del Vertice di Praga del novembre
prossimo e sottolineando la posizione strategica della Romania nella lotta al terrorismo
ed alla immigrazione transfrontaliera, nonché il ruolo che con la Bulgaria potrebbe
assumere nel rinforzare il fianco sud orientale dell'Alleanza, come emerso nel Vertice dei
Paesi del Gruppo di Vilnius svoltosi il 25-26 marzo scorsi.
Al riguardo il Primo Ministro Nastase ha rilevato che l'importanza strategica
dell'inclusione della Romania e della Bulgaria nella NATO è legata al fatto che si
consentirebbe di legare senza soluzione di continuità geografica Grecia e Turchia agli
altri Paesi europei della NATO. Al riguardo, nel corso di un successivo incontro con il
Segretario di Stato Motoc, è stato sottolineato l'impegno militare della Romania nelle
operazioni Enduring Freedom e ISAF, nonché la ristrutturazione in corso del sistema
militare nazionale per renderlo conforme ai parametri NATO.
Nel corso degli incontri parlamentari questo quadro è stato ulteriormente approfondito.
Il Presidente Podgoreanu ha sottolineato come la situazione della Romania sia migliorata
di molto anche solo rispetto ad un anno fa, precisando che la forte crescita del PIL (+5,3
per cento) ed il diffuso consenso delle forze politiche inducono all'ottimismo in ordine
all'ingresso della Romania nella NATO. Ben il 2 per cento del PIL viene destinato
all'ammodernamento delle Forze armate.
Nei colloqui è emersa invece una minore certezza di
tempi in ordine all'adesione della Romania all'Unione europea. Il Presidente Selva ha
peraltro confermato il favore dell'Italia a che la Romania persegua anche questo secondo
obiettivo entro tempi ragionevoli. Il Primo Ministro Nastase al riguardo ha chiarito
l'interesse del suo Paese ad entrare nella famiglia europea, anche alla luce della matrice
latina della cultura rumena. In particolare ha precisato che, poiché le dinamiche in
Europa sono nella prospettiva di accogliervi la Russia, non vede ragioni perché anche la
Romania non debba esservi inclusa. Ha quindi precisato l'impegno della Romania nella
chiusura di tutti i capitoli negoziali per il 2003, in modo da perfezionare l'accordo di
adesione nel 2004 (così da avere osservatori nel prossimo Parlamento europeo) ed entrare
nell'Unione dal 1o gennaio 2007 (per partecipare alle elezioni del Parlamento
europeo del 2008).
Il Segretario di Stato Motoc ha sottolineato il sostegno italiano all'adesione della
Romania all'Unione europea. In particolare ha evidenziato i progressi economici del Paese,
sostenuti dallo sviluppo di un moderno sistema democratico pluripartitico e da un forte
impegno nel rispetto dei diritti dell'uomo. Sotto questi profili ha rilevato forti
difficoltà nel recuperare l'isolamento imposto al paese dal regime di Ceausescu ed i
danni conseguenti al regime da questi imposto al Paese, soprattutto in termini di ritardo
nello sviluppo economico. Ha inoltre chiarito che la Romania ha adottato un processo
chiaro di riforme, segnalando peraltro la necessità che le imprese nazionali siano messe
in grado di sostenere un'economia di mercato aperta. Ha inoltre ricordato che l'adesione
della Romania all'Unione sarà sottoposta ad un referendum interno, che dovrebbe sancire
un consenso particolarmente diffuso.
Il Presidente Podgoreanu ha precisato che l'impegno economico per sostenere l'ingresso
della Romania nella NATO potrà servire anche per entrare in Europa, anche se ha
riconosciuto che l'impegno in questa direzione è maturato con più ritardo anche per le
menzionate difficoltà economiche.
Al riguardo il Presidente Selva ha ricordato le questioni ancora da risolvere, evidenziate
nella risoluzione del Parlamento europeo sullo stato di avanzamento dei negoziati per
l'allargamento, del 13 giugno 2002 (2002)0317. In particolare ha rilevato la necessità di
migliorare l'affidamento negli apparati amministrativi e giudiziari, di contrastare la
corruzione e la criminalità (in particolare per quanto riguarda il contrabbando di armi),
di migliorare l'efficienza delle forze di polizia. Ha peraltro formulato vivi
apprezzamenti per le nuove garanzie introdotte in materia di tutela dei minori.
Su tali aspetti il Presidente Podgoreanu ha chiarito che costituisce un aspetto
problematico aperto il modo in cui opera il sistema giudiziario nazionale, dando conto di
recenti misure adottate nella lotta contro la corruzione ed il traffico di armi, quale
l'istituzione di una Procura nazionale anticorruzione.
Quanto alle misure a tutela dell'infanzia ha precisato che permangono pressioni
contrastanti in materia di adozioni internazionali. Tuttavia il Paese si è impegnato ad
introdurre nuovi istituti di affidamento familiare ed orfanotrofi più piccoli ed
efficienti.
Per quanto riguarda la presenza imprenditoriale
italiana, il Primo Ministro Nastase ha apprezzato l'interscambio commerciale con l'Italia,
sottolineando con estremo favore la forte presenza di imprese italiane in particolare
nella provincia di Timisoara.
Nel corso degli incontri è altresì emersa la
questione del contrasto della minaccia terroristica, rispetto alla quale il Presidente
Selva ha più volte ricordato il ruolo essenziale della Romania. Al riguardo, nel corso
della visita al SECI è emerso il problema della regione della Transnistria al confine tra
Repubblica Moldova ed Ucraina, che ospita 700 mila abitanti e che costituisce una seria
minaccia per le infiltrazioni di terroristi e per l'ospitalità che assicura alle mafie
regionali.
Il SECI ha come missione il supporto alla lotta contro il crimine transfrontaliero
condotta dai Paesi partecipanti all'iniziativa (Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria,
Croazia, Grecia, Macedonia, Moldova, Romania, Slovenia e Turchia), sulla base di un
accordo multilaterale che prevede il miglioramento della cooperazione regionale attraverso
un'attività comune di polizia e di dogana, caratteristica che evita anche eventuali
sovrapposizioni con altri progetti dell'Interpol, di Europol e dell'Organizzazione
mondiale delle dogane.
L'Italia aderisce al SECI in qualità di osservatore, insieme a Austria, Belgio, Germania,
Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti, Ucraina, Polonia, Repubblica Ceca e
Slovacchia.
Il Vice Presidente Rivolta ha posto al Presidente
Podgoreanu talune questioni con riferimento ai rapporti con la Repubblica Moldova e con
l'Ungheria e sulla situazione nei Balcani, con particolare riferimento al Kosovo ed alla
Macedonia.
Il Presidente Podgoreanu ha precisato che nella Repubblica Moldova, dopo l'avvento del
regime comunista di Chisinau, la situazione dei rapporti con la Romania sarebbe
peggiorata, cosa evidente nella grave situazione economica interna a quel Paese. In
particolare ha precisato che la dirigenza della Repubblica Moldova ha imboccato una strada
che l'allontana dall'Europa: ha ritenuto particolarmente grave questa situazione, che ha
imputato alla minoranza russofona, nonostante la maggioranza della popolazione di origine
rumena.
Per quanto riguarda i Balcani Podgoreanu ha rilevato che il Kosovo è fortemente orientato
verso l'indipendenza, cosa che riterrebbe un precedente pericoloso in quanto
legittimerebbe nuove fratture in Macedonia ed Albania. In particolare in Macedonia la
situazione, pur stabile, non consente di escludere il rischio di aggravamento di una
situazione interna di crisi latente, suscettibile di essere destabilizzata da nuove crisi
nella regione.
Per quanto concerne le relazioni con l'Ungheria, Podgoreanu ha precisato che i recenti
risultati elettorali non hanno provocato particolari emozioni in Romania. Con il
precedente governo già si era giunti ad un accordo politico di base rivelatosi essenziale
per i rapporti bilaterali, superando una precedente difficile situazione connessa allo
status dei magiari presenti al di fuori del territorio ungherese. Quindi ha chiarito che
è prefigurabile un dialogo molto agevolato a causa della contiguità politica dei governi
di Budapest e Bucarest. In tal senso sono state avviate iniziative congiunte a livello sia
parlamentare sia di governo, suscettibili di intensificarsi anche in vista della comune
candidatura all'adesione all'Unione europea. Ha invece rilevato come manchino progressi
simili con la Slovacchia.
Anche in Romania gli incontri si sono conclusi con
l'auspicio di entrambe le parti per un'intensificazione delle relazioni bilaterali,
peraltro ottime. Il Presidente Selva ha confermato la disponibilità ad incontrare in
futuro a Roma una delegazione della Camera dei deputati della Romania.
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Missione in Colombia e Venezuela (17-24 novembre 2002)
Premessa
Una delegazione della Commissione affari esteri si è recata in missione in Venezuela e in Colombia dal 17 al 24 novembre 2002. La delegazione era guidata dal Presidente Gustavo Selva e composta dal deputati Dario Rivolta, Giovanni Bianchi, Gennaro Malgieri e Ramon Mantovani.
Come è ben noto, sia il Venezuela sia la Colombia vivono una situazione di grave, profonda crisi. Ma in Colombia la crisi è meno grave e le speranze di risolverla, da parte del Presidente Uribe e del suo governo, sono maggiori.
La delegazione ha dunque potuto acquisire direttamente elementi di valutazione di estremo interesse in ordine alle cause che hanno originato l'attuale situazione, allo stato dei fatti, alle prospettive di evoluzione degli scenari politici, sociali ed economici di entrambi i Paesi.
Gli elementi di conoscenza così acquisiti devono ora trasformarsi in occasione di riflessione sull'atteggiamento da tenere e le iniziative da assumere nei confronti di due Paesi legati all'Italia da più di un'affinità e dalla presenza, specialmente in Venezuela, di significative comunità di nostri connazionali.
Più in generale, mi sembra opportuno sottolineare preliminarmente che l'intero Sud America appare oggi come un laboratorio politico la cui evoluzione è doveroso seguire con estrema attenzione.
La situazione dei due Paesi in cui si è recata la delegazione, la crisi argentina e uruguayana, l'esito delle recenti elezioni in Brasile ed Ecuador, la prevista istituzione di un'area di libero scambio tra le due Americhe sono tutti sintomi di un fermento che bisogna seguire e comprendere.
Si profilano dunque scenari sui quali l'Italia non solo non può e non deve essere assente, ma deve innalzare il livello di attenzione ed accrescere l'efficacia della sua azione.
La presenza del nostro Paese in America del Sud risponde alla stessa ragion d'essere della politica estera: l'individuazione e il perseguimento degli interessi nazionali, in un quadro europeo.
Ed è interesse nazionale - beninteso oltre all'incremento delle relazioni commerciali, culturali e a quant'altro viene tradizionalmente ricompreso nell'ambito dei rapporti bilaterali - la composizione democratica dei conflitti, la tutela dei diritti delle persone, il miglioramento delle relazioni tra organizzazioni regionali e multilaterali, la cura dei nostri connazionali all'estero.
La politica estera italiana in America Latina deve ricorrere a tutti gli strumenti a sua disposizione - dall'incremento dei rapporti bilaterali ad un maggior attivismo nelle istanze multilaterali - per compiere uno sforzo che valga a mutare la qualità ed il senso della nostra presenza nella regione.
Ciò, peraltro, è quanto ci viene espressamente richiesto: nel corso dell'incontro della delegazione con il Presidente colombiano Uribe questi, nel sollecitare una maggior presenza italiana, anche al fine di un miglioramento delle relazioni del suo Paese con l'Unione europea, ha osservato che "non basta essere amici della Spagna". E questo è già di per sé un elemento di riflessione che mi pare estremamente significativo.
Incontri in Venezuela
La delegazione è stata in Venezuela dal 17 al 19 novembre. In quei giorni ha potuto incontrare il Presidente delle Repubblica, esponenti della maggioranza e dell'opposizione, rappresentati della comunità italiana.
Prima di passare all'illustrazione del contenuto di tali incontri, e per una loro migliore intelligenza, mi pare tuttavia opportuno dar conto, sia pure in estrema sintesi, della complessa situazione politica del Paese.
Una situazione che è parsa di profondissima contrapposizione tra i sostenitori, da un lato, del Presidente Chavez e, dall'altro, un'opposizione che è unita dal primario desiderio di vedere il Presidente uscire dalla scena politica; una situazione di stallo che determina nel Paese una tensione esasperata.
In breve, occorre ricordare che il clima di permanente conflittualità tra il Presidente della Repubblica e l'opposizione ha raggiunto un livello parossistico in seguito ai fatti - la cui precisa ricostruzione è peraltro stata parzialmente difforme nelle testimonianze degli interlocutori della delegazione - dell'11 e 12 aprile di quest'anno.
In quei giorni, infatti, l'acuirsi delle contrapposizioni ha portato ad un rovesciamento della Presidenza Chavez (un rovesciamento durato 24 ore).
Le ragioni del conflitto erano ab origine principalmente riconducibili ad un pacchetto di leggi (tra le quali principalmente contrastate la Ley de Tierras y Desarrollo Agrario e la Ley de Pesca y Acuacultura) considerate dall'opposizione lesive di diritti/interessi fondamentali ed approvate in base ad una Legge delega del novembre del 2001 (si tenga presente che il Partito del Presidente, il Movimiento V Repubblica - MVR, è la prima forza politica del Paese, ed alle ultime elezioni, svoltesi il 30 luglio 2000, ha conseguito all'Assemblea nazionale 77 seggi su 165).
Per opporsi a tali leggi, gli industriali (raccolti in Federcamaras) proclamarono in aprile uno sciopero generale cui aderirono i sindacati e organizzazioni della società civile (già in marzo le scelte presidenziali relative alla direzione della più importante realtà industriale del Paese, la Petroleos de Venezuela avevano provocato una forte reazione). Lo sciopero si è concluso con una marcia di migliaia di persone verso il palazzo presidenziale - e con conseguenti scontri che hanno purtroppo causato numerose vittime - e la sostituzione del Presidente Chavez con il Presidente di Federcamaras, Pedro Carmona.
Il giorno successivo, tuttavia, per ragioni che sono state ampiamente discusse nel corso degli incontri della delegazione, Carmona è stato a sua volta deposto (nel corso di queste poche ore, Carmona aveva avuto modo di redistribuire alcune cariche privilegiando la marina nei confronti dell'esercito - e pare che questo sia stato un errore - e di decretare lo scioglimento di tutti i poteri costituiti - e questo è senz'altro stato un errore ancor più grande) e il Presidente Chavez reinsediato.
Da quel momento, la situazione è dominata dall'incertezza e dalla tensione.
Le opposizioni chiedono un referendum (anche sulla legittimità dell'utilizzazione di tale strumento in questo momento le opinioni raccolte dalla delegazione, come si vedrà, sono state difformi) che, in sostanza, avrebbe lo scopo di chiamare il Paese ad esprimersi pro o contro Chavez.
I media - che, ad eccezione dell'unico canale facente capo all'ente di Stato, pare siano interamente in mano alle forze di opposizione - sembrano non occuparsi d'altro (e nella programmazione televisiva capita di imbattersi in trasmissioni nelle quali alti graduati dell'esercito invitano alla, chiamiamola così, contestazione attiva; i giornali sono quasi interamente dedicati alla situazione politica). Una delle piazze principali di Caracas (Plaza Altamira, che è stata visitata dalla delegazione) è occupata da mesi da militari in rivolta contro il Presidente (ed è in sostanza bloccato l'intero quartiere). Il giorno in cui è partita la delegazione la città è stata invasa da un immenso corteo che si è concluso davanti all'Assemblea Nazionale (e questo, incidenter tantum, è il motivo per cui non è stato possibile svolgere il previsto incontro con la Commissione esteri del Parlamento venezuelano).
È dunque in questo clima che si sono svolti gli incontri della delegazione; un clima che, nel giorno di cui presento questa relazione, si è fatto ancora più fosco, quanto ai risultati del tavolo di "conciliazione nazionale", e più pessimistico per gli sviluppi futuri.
Il primo degli incontri è stato con esponenti politici del MVR, il partito di maggioranza fondato, come si è visto, nel 1998 dal Presidente Chavez dalle costole del Movimiento Bolivariano Rivoluzionario.
L'ideologia - anche se qui l'uso del termine appare improprio - del MVR, e quindi di Chavez, si riconduce al pensiero e all'esempio di Simon Bolivar, l'eroe nazionale, tanto che la stessa (nuova) Costituzione venezuelana, approvata nel 1999, ha cambiato il nome ufficiale della Repubblica in "Repubblica Bolivariana del Venezuela". Tale ideologia, che ha trionfato la prima volta nelle elezioni del 1998, si basa sulla "rifondazione della Repubblica" (e la Costituzione del 1999 ha in effetti rappresentato un profondo cambiamento istituzionale) e sulla gestione della cosa pubblica da parte del popolo, coinvolto in forme "partecipative".
In particolare, i colloqui della delegazione si sono svolti cori il responsabile degli esteri, Diego Salazar, con il Professor Adan Chavez (fratello del Presidente Hugo Chavez) e con il Presidente dell'Assemblea Nazionale William Lara (che aveva accolto la delegazione al suo arrivo a Caracas).
Il responsabile degli esteri, Salazar, ha anzitutto sottolineato l'opportunità della visita della delegazione in un periodo "intenso, non critico" della vita pubblica venezuelana ed ha ritenuto che senza i cambiamenti prodottisi nei corso degli ultimi anni ad opera del Presidente Chavez il Paese sarebbe precipitato in un baratro dal quale non avrebbe più potuto uscire (qui occorre precisare che, in effetti, il sistema politico sostanzialmente bipartitico sul quale si era retto per decenni il Venezuela - basato da un lato sul partito socialcristiano "Copei" e su quello socialdemocratico, Accion Democratica - era entrato profondamente in crisi nel corso degli anni novanta, principalmente a causa della perdurante crisi economica aggravata da un incremento massiccio della popolazione. Nel 1998, come accennato l'anno dell'affermazione di Chavez alle elezioni presidenziali e del suo movimento a quelle politiche, l'opinione pubblica ha evidentemente inteso esprimere il proprio profondo disagio e il desiderio di cambiamento).
Salazar ha posto in evidenza l'importanza della parte dedicata ai diritti umani dalla Costituzione del 1999 e la necessità di disporre di un adeguato periodo di tempo per giungere a risultati non solo parziali (non dimenticando di far presente che il suo movimento è al potere solo da pochi anni). Secondo il responsabile degli esteri del MVR. In questo periodo il governo è riuscito a stabilizzare i prezzi del petrolio in una fascia ragionevolmente equilibrata (si tenga presente che il petrolio è una risorsa determinante per il Venezuela; una delle ragioni della crisi economica cui sopra si accennava è stata la dipendenza da questa sola risorsa e, quindi, la mancata diversificazione produttiva. L'industria petrolifera, con il relativo indotto, contribuisce al PIL del Paese per il 44 per cento; nel 2001 la vendita di greggio ha rappresentato l'80 per cento delle esportazioni), a controllare l'inflazione, a ridurre la disoccupazione e ad incrementare le possibilità di istruzione per larghi strati sociali.
Riferendosi ai fatti di aprile, Salazar ha sostenuto che sono stati "il popolo, le Forze armate, l'immensa maggioranza" ad aver sventato (revertido) il golpe e, dopo aver fatto presente che nonostante il permanente clima di tensione le forze di maggioranza intendono proseguire nella loro azione, guidate dalla Costituzione e chiamando al dialogo il popolo venezuelano, ha concluso facendo osservare che la "rivoluzione" chavista (questo termine è continuamente impiegato per designare i cambiamenti posti o da porre in essere) è una rivoluzione pacifica e che la mentalità dei militari venezuelani è molto aperta, molto vicina al popolo".
Il Professor Adan Chavez ha osservato che è in atto una "guerra mediatica" contro il processo di trasformazione e, soffermandosi sulle caratteristiche ideologiche del Movimento, ha fatto presente che l'MVR non è formato da comunisti ma non è neanche contrario ai comunisti, come non è del resto contrario ad alcuna forma di pensiero, in quanto "ogni popolo deve essere in grado di creare il proprio destino"; pertanto, ha sostenuto Adan Chavez, l'MVR è aperto e disposto a rapportarsi e confrontarsi con ogni popolo, sulla base del principio fondamentale dell'autodeterminazione dei popoli.
Il Movimento, ha concluso Adan Chavez, è "bolivarista" e la lettura della Costituzione approvata nel 1999 è la miglior guida per comprendere cosa ciò significhi (in effetti si tratta di un testo complesso ed articolato, composto da 350 articoli e accompagnato da una dettagliata e a sua volta altrettanto complessa "Exposiciòn de motivos de la Consituciòn de la Repùblica Bolivariana de Venezuela". Si tenga presente che la Costituzione è stata approvata, il 15 dicembre 1999, con referendum popolare. Tra i tratti salienti che pare opportuno conoscere al fine di una miglior comprensione dell'attuale contesto venezuelano, si segnala il Titulo I della predetta Exposiciòn, che espressamente fonda la condizione libera ed indipendente della Repubblica "en el ideario de Simon Bolivar, el Libertador, su patrimonio moral y los valores de libertad, igualdad y paz internacionàles". Inoltre, la Costituzione "adaptando a nuestro tiempo las ideas immortales del Libertador Simon Bolivar, ...rompe con la clàsica divisiòn de los poderos pùblicos y crea los poderes Ciudadano y Electorar" (Capitolo IV del Titolo V della Exposiciòn). Sempre per una adeguata valutazione del carattere quasi "mistico" che assume la Costituzione nel movimento, può essere significativo, di poco anticipando l'esposizione, far presente che il Presidente Hugo Chavez, nel corso dell'incontro con la delegazione, ha più volte estratto di tasca una copia della Costituzione rivendicando a tale testo valore fondante della legittimità repubblicana e, conseguentemente, quella della sua azione di governo in quanto coerente col dettato costituzionale).
È quindi intervenuto, replicando a precise domande e richieste di chiarimenti dei componenti della delegazione, il Presidente dell'Assemblea Nazionale William Lara, il Presidente Lara ha fatto anzitutto riconosciuto che sono stati compiuti alcuni errori, attribuendoli ad esponenti di strutture sulle quali, non essendo un partito, si è dovuto appoggiare il movimento.
Il Venezuela avrebbe bisogno, ha proseguito Lara, di una serie di veri "capitani d'impresa", mentre negli anni passati la costituzione di capitale privato a scapito delle risorse pubbliche è stata la normalità. Inoltre, sempre secondo Lara, manca al governo una vera e propria strategia di comunicazione, come si è riscontrato nel caso della riforma agraria, che non è certo un esproprio, come si vuol far credere, ma uno strumento per introdurre maggiori elementi di capitalismo nel settore.
Il Presidente Lara ha ritenuto che l'Europa può sostenere il Venezuela, anche se alcuni Paesi sembravano orientati a valutare positivamente i fatti di aprile ed ha fatto presente che il Venezuela - e questo è significativo per l'intera America latina - ha dimostrato che il cambiamento si può fare democraticamente e per via elettorale (affermazione che, da quel che capita in questi giorni, è molto ottimistica).
Il blocco sociale che sostiene la maggioranza, ha proseguito Lara, è composto da appartenenti a tutti gli strati e i settori della popolazione; l'opposizione si è resa conto che non potrà raggiungere il governo per via elettorale ed è disposta a perseguire quest'obiettivo con altri mezzi; ma solo se il popolo si esprimerà contro la politica del Presidente, questi - senz'altro - consegnerà ad altri la guida del Paese.
Soffermandosi su alcuni aspetti di politica estera, e in particolare sui rapporti tra il Venezuela e Cuba, il Presidente Lara ha ribadito che il principio guida costituzionale in materia resta quello della autodeterminazione dei popoli, ragion per cui il suo Paese non esamina certo le amicizie altrui, come ad esempio quella degli Stati Uniti con la Cina. Per il Venezuela è necessario avere strette relazioni con tutti i Paesi dell'area caraibica, nessuno escluso, e resta ugualmente amico del governo e del popolo statunitense.
In conclusione, il Presidente Lara ha osservato che una escalation della tensione in Venezuela potrebbe far degenerare la situazione con riflessi non solo sul prezzo del petrolio e, quindi, sull'economia mondiale, ma sulla stabilità dell'intero Sud America. Un Venezuela stabile, che trovi una soluzione democratica e pacifica ai contrasti che oggi vive, conviene dunque a tutti.
Nel corso del colloquio con il Presidente Hugo Chavez sono stati approfonditi tutti i temi relativi alla situazione venezuelana, sia sotto il profilo della politica interna sia in ordine alle posizioni del Paese nella dinamica delle relazioni internazionali.
Previsto per la serata di lunedì 18 novembre, il colloquio si è svolto nel corso della notte e fino alle prime ore del mattino di martedì 19.
Il Presidente, infatti, aveva dovuto protrarre il suo impegno in una iniziativa diretta a coagulare la "classe media" intorno alla politica e alle posizioni presidenziali; la delegazione, peraltro, ha potuto seguire tale iniziativa, svoltasi al Teatro Teresa Carreño di Caracas, grazie alla ripresa diretta televisiva trasmessa dal canale di Stato.
Il quadro della situazione e la sua possibile evoluzione - delineati dal Presidente nel corso di diverse ore di confronto improntato ad un franco scambio di opinioni e valutazioni - può essere sintetizzato nei termini seguenti.
Il Presidente Chavez, come si è visto appena tornato dalla manifestazione "classe media", ha tratto lo spunto da tale iniziativa per tratteggiare il profilo del blocco sociale che sostiene la politica presidenziale.
Secondo Chavez, la sua politica gode di un "enorme appoggio" (e l'adesione/riconquista ad essa della classe media ne rappresenta la più immediata testimonianza) e la popolazione ha ormai "voltato le spalle" all'opposizione; l'intensità del sostegno popolare è stata anche dimostrata nel corso dei fatti di aprile, durante i quali in meno di 24 ore "milioni di persone sono uscite per strada" per opporsi al suo rovesciamento. In definitiva, "il popolo ha riacquistato il senso della partecipazione".
I provvedimenti del governo, ha proseguito Chavez, sono contestati strumentalmente dalle elites (che "sembrano impazzite"), come ad esempio è accaduto per la riforma agraria (per Chavez si tratta di una riforma che segue il modello europeo ed è diretta a contrastare l'improduttività del latifondo) e della pesca (che, vietando tra l'altro, la pratica della pesca a traino avrebbe anche effetti positivi sul piano della tutela dell'ecosistema). Simili reazioni, sempre secondo Chavez, si sono avute per la riforma fiscale, che introduce elementi di equità in un Paese dove "i capitalisti non hanno mai pagato le tasse" e gli oneri sono stati sostenuti solo dal popolo.
Il modello venezuelano è secondo Chavez un esperimento che "affronta il cuore del problema dell'America latina"; tale problema consiste nel paradossale effetto che ad una crescita economica consegue un correlativo aumento della povertà, e la causa deve individuarsi nelle diseguaglianze ("il più grave problema dell'America latina è la povertà"). Per il Presidente venezuelano una conseguente azione politica deve quindi porsi il problema di come trasformare - con mezzi pacifici e democratici - un modello di diseguaglianza in un modello di equità e, sempre secondo Chavez, il Venezuela, grazie alla politica seguita in questi ultimi anni, ha cominciato ad impostarne correttamente la soluzione ("bisogna guardare al caso Venezuela").
Soffermandosi sulla situazione interna, il Presidente ha dichiarato di aver "messo in scena il principio della massima tolleranza possibile" e ritenuto che le attuali, profonde difficoltà potranno essere superate senza scontro; questo perché "il Paese è in marcia, ogni giorno" e perché i militari non si presteranno a soluzioni contrarie all'ordine costituzionale (anche se "un gruppo è stato comprato"). Il presidente ha assicurato che "tutte le decisioni saranno prese nel quadro della Costituzione e della legge", e che al momento non intende neanche considerare la possibilità di dichiarare lo stato di eccezione (ipotesi consentita dall'articolo 337 della Costituzione nel caso in cui circostanze di ordine sociale, politico, economico, naturale o ecologico turbino gravemente la sicurezza della Nazione e dei cittadini).
Dopo aver riaffermato la sua fedeltà ai principi democratici e manifestato apprezzamento per la funzione svolta dall'opposizione nella dinamica della vita politica, il Presidente Chavez ha auspicato che l'opposizione possa veramente giungere ad svolgere il ruolo che gli è proprio nel sistema ("magari ci fosse un'opposizione ... c'è un gruppo di persone").
Dopo aver rammentato che l'opposizione si è sempre dichiarata contraria alla Commissione di conciliazione nazionale, il Presidente venezuelano ha rammentato che la Costituzione consente l'effettuazione di un referendum revocatorio (previsto dall'articolo 72 della Costituzione), all'esito positivo del quale il Presidente deve rimettere il suo mandato; senonché tale consultazione popolare non può svolgersi - a differenza di quanto ritenuto dalle opposizioni - prima del compimento della metà del mandato, ossia non prima dell'agosto 2003 (a questo punto occorre rammentare che, sulla base della vigente Costituzione, il Presidente della Repubblica è eletto per sei anni e può essere rieletto per un periodo successivo. Ora, Chavez fu eletto, come si è visto, nel 1998, ma, a seguito dell'approvazione della nuova Costituzione si sono svolte, il 30 luglio 2000, elezioni cosiddette di "rilegittimazione di poteri". L'opposizione, tra l'altro, contesta il termine a quo del mandato e, almeno in parte, non si appella al referendum revocativo ma invoca un, referendum consultivo - ex articolo 71 della Costituzione - il cui significato politico, in caso di sfiducia manifestata al Presidente, non sfugge ad alcuno. Qui occorre peraltro segnalare che, successivamente alla partenza della delegazione, il Comitato Nazionale Elettorale si è espresso in favore del referendum consultivo, ma questo non sembra aver modificato la posizione dell'amministrazione in merito).
Trattando la posizione del suo Paese nel contesto internazionale, il Presidente Chavez ha fatto anzitutto presente che il Venezuela è un Paese sovrano e in quanto tale agisce, come, ad esempio, è stato dimostrato dall'atteggiamento tenuto nell'ambito dell'Opec e dalla posizione relativa alla lotta alla guerriglia nella vicina Colombia.
Dopo aver sottolineato dì non essere comunista, pur essendo amico di Fidel Castro, il Presidente venezuelano ha ritenuto che il problema dei rapporti con gli Stati Uniti sia, in ultima analisi, "un problema di percezione"; quanto alla prevista area di libero scambio tra le due Americhe il Presidente Chavez, pur non manifestando contrarietà, ha osservato che sarebbe opportuno e maggiormente proficuo creare preliminarmente una più fitta trama di rapporti e una maggior coesione tra i Paesi sudamericani, le cui economie rischierebbero, altrimenti, di venire travolte.
Infine, il Presidente Chavez ha osservato che il Venezuela potrebbe molto giovarsi dell'aiuto dell'Italia e dell'Unione europea principalmente per giungere "a conseguire un modello politico ed economico adatto alla sua realtà". I fatti accaduti dopo la nostra visita dimostrano quanto queste speranze, se pur espresse in buona fede, siano fondate sulla sabbia.
La delegazione ha anche incontrato esponenti dei principali partiti politici che integrano la "Coordinadora Democratica", ossia il coordinamento delle forze di opposizione.
Tale coordinamento è formato anzitutto dai due storici partiti venezuelani (Acciòn Democràtica e il Copei, dei quali già si è detto), oltre che dal Movimiento al Socialismo - MAS (originato dalla secessione dell'ala sinistra del Copei; da notare che il MAS è a sua volta scisso in una parte che appoggia il Presidente - il "MAS màs" e una che lo avversa - il "MAS menos"), da Primero Justicia (di ispirazione liberale), da Bandera Roja (di sinistra radicale) e da Proyecto Venezuela (capeggiato dal contendente di Chavez alle elezioni del 1998, Salas Romer).
Il colloquio con gli esponenti dell'opposizione si è svolto nella mattina del giorno 19, ossia nell'imminenza e nel corso dello svolgimento della manifestazione cui si è sopra accennato. Deve rilevarsi che sebbene tale circostanza non abbia certo impedito un proficuo esito dell'incontro, ha tuttavia determinato alcune - pienamente comprensibili e giustificabili - defezioni nel corso dello stesso da parte degli esponenti dell'opposizione impegnati nell'organizzazione della manifestazione e nella partecipazione alla stessa.
Il Vicepresidente del Copei, Maruja Tarre, ha anzitutto descritto un quadro inquietante delle prospettive ("peggiora di momento in momento") e fatto presente che l'opposizione potrebbe decidere di indire uno sciopero generale contro il governo (evento che poi si è prodotto).
Il Segretario Generale del MAS, Leopoldo Pucci, ha rammentato che al suo apparire il movimento di Chavez aveva suscitato molte aspettative in ordine alla rigenerazione dello Stato, essendosi irrimediabilmente logorato il vecchio sistema (ossia il sostanziale bipartitismo, cui si è sopra accennato, che aveva retto il Paese dai tempi del cosiddetto "Patto per la Democrazia", firmato a Punto Fijo il 31 ottobre 1958 tra Copei e AD). Pucci ha proseguito che, da un punto di vista formale, esistono le condizioni per lo svolgimento della vita democratica, ma che la Presidenza ha posto in essere più d'una violazione alla Costituzione, tra le quali l'utilizzazione del potere a fini di ideologizzazione delle Forze armate, la creazione di "gruppi parastatali che aggrediscono la popolazione", il tentativo di creare "una struttura parallela che in futuro potrà impedire libere elezioni".
Il Segretario Generale del Copei, Cesar Vivas, ha fatto presente che il governo ha sempre tentato di dividere l'opposizione e svolto un'azione per "soffocare" i partiti politici, politicizzando le Forze armate ed intervenendo pesantemente nell'assetto del settore industriale, e in particolare nell'industria petrolifera. Vivas ha sostenuto che i fatti di aprile sono stati posti in essere da "gente stufa del controllo politico" che "è stata ricevuta da gruppi armati" e, a suo dire, si sarebbe dunque trattato di un'azione "pianificata". I capi dell'esercito, sempre secondo la ricostruzione di Vivas, si sarebbero rifiutati di assecondare tale piano e il generale Rincon ha successivamente annunciato la rinuncia del Presidente alla carica (il Presidente Chavez ha sempre affermato di non aver mai posto in essere tale rinuncia).
Vivas ha proseguito facendo presente che, in seguito a tali eventi un "gruppo non appartenente ai partiti ha preso il controllo"; gli esponenti dei partiti hanno incontrato i rappresentanti di tale gruppo che, però "non li hanno voluti ascoltare" ed hanno emanato provvedimenti antidemocratici, con l'effetto che è noto.
Secondo Vivas, i fatti di aprile hanno permesso all'opposizione di prendere coscienza di sé, e dato origine, appunto, alla Coordinadora Democratica, coordinamento di esponenti di diversi orientamenti e nell'ambito della quale, pertanto, è del tutto fisiologico riscontrare opinioni differenti.
Nel corso del successivo dibattito tra la delegazione e gli esponenti dell'opposizione, sono peraltro emersi altri significativi elementi, che pare opportuno richiamare di seguito.
L'opposizione ritiene che le manifestazioni non abbiano lo scopo di provocare una soluzione extracostituzionale dell'attuale situazione, ma piuttosto quello di superare la crisi aprendo la strada ad una soluzione legittima. L'unione delle forze di opposizione della Coordinadora Democratica trova il suo senso nella difesa della democrazia, e il gruppo che ha temporaneamente assunto il potere l'11 aprile ha potuto farlo perché per anni è stato sistematicamente demolito e denigrato il sistema dei partiti. In ordine agli avvenimenti di aprile, si è affermato che sarebbe stato lo stesso Presidente a consegnarsi, e che ciò avrebbe determinato un "vuoto di potere" (non si sarebbe quindi trattato di un "golpe") del quale avrebbe approfittato un gruppo nelle cui intenzioni c'era quella della "confisca delle libertà democratiche".
Quanto al previsto mezzo di lotta dello sciopero generate, si è osservato come la sua realizzazione presenti più di una difficoltà, a causa della pesantissima crisi economica in cui si dibatte il Paese. La sua indizione (ad oltranza, secondo alcune prospettazioni) sarebbe pertanto una sorta di "ultima arma" contro il governo del Presidente Chavez, come sembrano dimostrare gli avvenimenti in corso di svolgimento.
La delegazione ha anche incontrato alcuni rappresentanti della comunità italiana (eletti nel quadro dei Cgie e dei Comites). Tali rappresentanti, dopo aver mostrato apprezzamento per l'opera svolta dal Ministro per gli italiani all'estero, hanno fatto presente che "la divisione è un lusso che gli italiani all'estero non possono permettersi", ed hanno lamentato la poca attenzione che, a loro dire, l'Italia riserva al Venezuela.
I rappresentanti hanno dichiarato di "non volere interventi monetari", ma attenzione e chiesto se talune facilitazioni previste dalla legislazione italiana (con particolare riferimento ai crediti d'onore, al lavoro a distanza e a simili strumenti normativi) non possano essere applicate anche ai nostri connazionali residenti fuori del territorio italiano. Si è inoltre rammentato che a partire dal 1993 le pensioni maturate in Venezuela non sono esportabili (e quindi molti connazionali che lo desidererebbero non possono tornare in Italia, dove risulterebbero privi dei mezzi di sussistenza) e che, a causa della tardiva introduzione della contribuzione obbligatoria nel Paese sudamericano (1979) molti nostri connazionali risultano non aventi diritto alla pensione. A quest'ultimo riguardo, è stato chiesto se non sia possibile estendere a tali soggetti l'assegno sociale erogato dall'Inps.
Gli incontri in Colombia
Come si ricorderà, nel corso della XIII Legislatura, la Commissione affari esteri aveva svolto una missione in Colombia dal 14 al 20 maggio 2000 (e la relazione su tale missione si può leggere nel Bollettino delle Giunte e delle Commissioni del 7 giugno 2000) con lo scopo di approfondire i temi e le prospettive del processo di pace allora in corso.
In poco più di due anni, lo scenario politico del Paese sudamericano appare profondamente mutato, principalmente a causa dell'elezione del nuovo Presidente, Uribe (eletto il 26 maggio scorso ed insediatosi il 7 agosto: come pure si ricorderà, durante la cerimonia di insediamento si è registrato - in pieno centro di Bogotà e a brevissima distanza dal palazzo presidenziale - un gravissimo attentato che ha fatto più di venti morti) e delle politiche che la nuova amministrazione intende seguire per far fronte agli immensi problemi del Paese (si avrà modo di illustrare diffusamente tali politiche nel proseguo della relazione; ma per dare un primo orientamento si può sin d'ora rammentare lo slogan con cui lo stesso Uribe ha presentato il suo programma durante la campagna elettorale; "mano dura e cuore grande").
Vale la pena, infatti, di rammentare che la Colombia vive una situazione economica difficilissima (oltre la metà della popolazione ha un reddito inferiore alla soglia di povertà; 11 milioni di persone hanno un reddito di un dollaro al giorno; quasi tre milioni di sfollati senza alcuna risorsa), è intestata dal narcotraffico ed è preda da decenni di un conflitto armato tra Stato e movimenti eversivi (le Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia-FARC e l'Esercito di Liberazione Nazionale-ELN, entrambi di ispirazione marxista; si ricorderà che la prima organizzazione è stata recentemente inserita dall'Unione europea nella lista delle organizzazioni terroristiche ed è "mafia pura", secondo la definizione data dal Ministro dell'interno nel corso dell'incontro con la delegazione) oltre che con gruppi illegali che ambiscono ad un riconoscimento politico da parte dello Stato (le "Autodefensas Unidas de Colombia-AUC").
I legami tra guerriglia, gruppi terroristici e narcotrafficanti - legami che da qualche anno sono divenuti sempre più stretti - stringono in una devastante tenaglia lo Stato e i cittadini e rendono immane il compito della nuova amministrazione (lo renderebbero a qualsiasi amministrazione) che pure, come è apparso dai colloqui e più ancora dai contatti, anche informali, avuti ad ogni livello, gode della fiducia dei cittadini.
In effetti, la gravità della situazione e le difficoltà inconcepibili in cui si dibattono i cittadini colombiani (che non possono neanche permettersi una gita fuori città; le strade, malgrado i presìdi - che hanno l'efficacia che possono avere in un Paese esteso quasi quattro volte l'Italia - sono assolutamente insicure, ed il rapimento a scopo di estorsione è, - unitamente al narcotraffico - uno del modi "ordinari" con cui la guerriglia e i paramilitari si finanziano. In questo momento, circa 3.000 persone sono sequestrate; il Ministro dell'interno e della giustizia ha tuttavia fatto presente alla delegazione che il numero è in diminuzione) non possono apprezzarsi pienamente che recandosi in loco.
Anche per questo, pare assolutamente indispensabile svolgere una seria riflessione sul significato e la presenza politica del nostro Paese in America latina, tema cui si accennava in apertura (e, a questo riguardo, non pare inutile rammentare che l'Italia era - unitamente a Spagna, Francia e Svizzera, nel gruppo dei Paesi cosiddetti "facilitatori" del dialogo con le FARC, nel quadro dei negoziati del processo di pace interrotto lo scorso febbraio, per la sua manifesta incapacità di raggiungere risultati positivi per una vera pacificazione).
Il primo degli incontri che ha avuto la delegazione è stato con il Ministro dell'interno e della giustizia, Fernando Londoño che, dopo aver riassunto le più recenti vicende politiche colombiane, ha dichiarato che il Presidente Uribe non ha avuto appoggi politici o economici nel corso della campagna elettorale (in effetti Uribe, proveniente dalle fila del Partito liberale-PL, si è candidato come indipendente, ricevendo peraltro il consenso del Partito Sociale Conservatore-PSC; sulla linea politica dei partiti colombiani si avrà modo di tornare in seguito) ed ha vinto le elezioni "con un discorso", riassumibili nel titolo già ricordato: "Mano dura, cuore grande".
E questo discorso, ha proseguito Londoño, consisteva nell'esposizione delle basi programmatiche: il recupero della sicurezza democratica e la formazione di uno Stato comunitario che permetta di combattere la povertà. Secondo il Ministro, il nemico principale della Colombia è il narcotraffico, la vera causa di tutta la tragedia del Paese: in base alle ultime informazioni in suo possesso, il volume di "affari" annuale dei narcotrafficanti sarebbe pari a 10 miliardi di dollari, e questo da solo rende l'idea del potere di questi delinquenti ("possono corrompere chi vogliono, assassinare, terrorizzare e distruggere il Paese, organizzare gruppi armati, meglio armati della polizia e dell'esercito"); l'idea è ancora più chiara se si considera che il PIL colombiano è di 9 miliardi di dollari. Paramilitari e guerriglia hanno inoltre a disposizione una "forza armata" di circa trentamila uomini.
Il solo modo di affrontare seriamente il problema, ad avviso dei Ministro, è anzitutto quello militare; ma anche questa opzione sarebbe inefficace se le Forze armate non godessero del sostegno e della collaborazione della popolazione, che oggi comincia a manifestarsi grazie all'adesione alla politica presidenziale e al nuovo spirito (di "fede e speranza") che pervade lo Stato.
Dal 7 agosto, data dell'insediamento del Presidente, non è stato distrutto alcun nuovo villaggio. Questa informazione, fornita dal Ministro dell'interno e della giustizia, si riferisce ad una sciagurata pratica posta in essere tanto dalla guerriglia quanto dai paramilitari; tale pratica si risolve in una ulteriore sciagura per il Paese e per i malcapitati che vi incorrono, e dà origine al fenomeno dei cosiddetti "desplacados" (anche se, in verità, diventano desplacados solo i fortunati - diciamo così - che sopravvivono alle violenze).
Il fenomeno consiste in ciò: quando, per ragioni strategiche o per tutelare le coltivazioni di coca o papavero, o ancora, per favorire le rotte del narcotraffico c'è "bisogno" di nuovi spazi, gruppi armati assaltano il villaggio insediato nella zona interessata e, con violenze che talvolta raggiungono livelli di bestiale efferatezza, costringano i contadini ad abbandonare le terre ed ogni loro avere per dirigersi, nella maggior parte dei casi, verso le maggiori città dove, oltre a condurre essi stessi una vita di inimmaginabili stenti, determinano un ulteriore aggravamento dei già pesanti problemi sociali ivi esistenti.
Tornando all'incontro della delegazione con il Ministro Londoño, si fa presente che, secondo quest'ultimo, l'idea che la guerriglia sostenga la causa sociale rovescia la realtà dei fatti; è vero invece che "lo squilibrio" creato dalla guerriglia e dal narcotraffico determina i problemi sociali della Colombia. Tra gli effetti negativi per l'economia colombiana del narcotraffico, ha proseguito il Ministro, c'è la robustezza della valuta nazionale ("una delle più forti del mondo"), determinata dal costante afflusso nel Paese di somme enormi in dollari; conseguentemente, ha sostenuto Londoño, "lavorare e produrre in Colombia è impossibile", le esportazioni evidentemente difficili, l'agricoltura priva di prospettive reddituali soddisfacenti, la crisi del settore primario trascina con sé le piccole e medie industrie, il turismo è "distrutto". Ad avviso del Ministro, il narcotraffico può essere combattuto (e sconfitto) solo con una combinazione di forza militare e collaborazione dei cittadini (la guerriglia è in fuga se il popolo è con noi e ci dice dove sono i guerriglieri"). Lo ha dimostrato la liberazione, dopo tre giorni, del Vescovo Enrique Jimenez, Presidente della CELAM (Consiglio episcopale latino-americano) con la collaborazione dei cittadini.
La lapidaria conclusione di questa parte dell'intervento del Ministro è stata che o la Colombia distrugge il narcotraffico o il narcotraffico distrugge la Colombia.
Il Ministro ha rammentato che la Colombia è la più antica democrazia del Sud America (ed ha subito solo due brevi periodi di governo militare nel XIX secolo) e la sua stabilità è una garanzia per l'intera regione; secondo Londoño, tale elemento essenziale potrebbe tuttavia essere compromesso se l'assetto del Paese non sarà cambiato nel corso del mandato presidenziale affidato ad Uribe (ai sensi della vigente Costituzione il Presidente è eletto per quattro anni e non è rieleggibile) e non c'è dunque molto tempo per lavorare.
Soffermandosi su alcuni profili dell'azione di governo del Presidente Uribe, il Ministro ha fatto presente che l'amministrazione Uribe combatte "implacabilmente" la corruzione ("il popolo colombiano è saturo della corruzione", il Presidente "non ha dato un posto per raccomandazione", "ha nominato la gente migliore") e che deve anche affrontare una crisi di bilancio "enorme". Inoltre, sempre a detta del Ministro, l'amministrazione sta provvedendo a creare una rete di protezione per i sindacalisti ed è alla prese con una criminalità dalle dimensioni inimmaginabili. Nel 2001 sono stati commessi 35.000 omicidi (la media nazionale è la più alta del mondo: 90 su 100 mila), con il problema di tentare di riconvertire alla vita civile circa trentamila combattenti (peraltro in gran parte giovani e giovanissimi, lusingati dal denaro proveniente dal narcotraffico, e non certo dall'idea di liberare il Paese dalla miseria).
Il Ministro ha proseguito rammentando che il terrore provocato dalla guerriglia e dai narcotrafficanti produce devastazioni enormi (l'anno passato sono stati distrutti 130 villaggi e compiuto 120 attentati all'oleodotto); peraltro, sempre secondo il Ministro, il cartello di Calì "è vivo e la sua capacità di corruzione e minaccia è enorme".
Soffermandosi in particolare sul problema della guerriglia, Londoño, dopo averne richiamato le origini ha affermato che esse non avevano nulla a che spartire con il narcotraffico, ma si considerava come movimento ideologico di ispirazione castrista, il fenomeno ha avuto inizio nel 1948, per essersi poi riprodotto - sempre più come braccio militare del narcotraffico - intorno al 1980 ad opera dei reduci della precedente esperienza; successivamente altre generazioni di guerriglieri sono stati "armati" da Cuba. La guerriglia ha proseguito il Ministro, aveva nei narcotrafficanti il proprio "nemico mortale", tanto che ebbe la "pessima idea" di rapirne alcuni esponenti, con ciò determinando la creazione da parte dei narcotrafficanti di un esercito privato (le AUC); questo ha prodotto i disastri attuali, non ultimo quello che la Colombia, da Paese di traffico è diventato Paese produttore di stupefacenti.
Per essere Paese produttore, ha fatto presente il Ministro, occorre tuttavia controllare il territorio, disporre di aeroporti, poter difendere le coltivazioni e quant'altro; i narcotrafficanti, dunque, avrebbero "contattato" la guerriglia per fare questo lavoro. L'idea che la guerriglia difenda il popolo, secondo Londoño, è "del tutto sbagliata", e oggi il popolo rispetta l'esercito, la polizia e la chiesa, il Governo è interessato ad un cambiamento della situazione e disposto ad un processo di pace, ma in completa assenza di rapimenti, attentati e quant'altro.
Il Ministro ha concluso che non ci sarà "mai più dialogo in mezzo ad un conflitto armato".
Il tema del contrasto alla guerriglia e ai paramilitari è stato al centro dell'incontro che la delegazione ha avuto, presso il Comando Generale del Ministero della Difesa, con il Vice Ministro della difesa nazionale, Bernardo Ortiz, e il Capo di Stato Maggiore Congiunto, generale Euclides Sànchez.
Nel corso del colloquio, gli interlocutori della delegazione, oltre a soffermarsi sugli aspetti più generali e politici del tema, hanno particolarmente insistito, come meglio si vedrà più avanti, sull'importanza attribuita al rispetto dei diritti umani e sulle iniziative assunte per inculcare tale assunto nell'esercito.
Il Vice Ministro della difesa nazionale, Bernardo Ortiz ha dapprima fatto presente che i problemi colombiani hanno più di una causa e poi dichiarato che il primo obiettivo del governo è "restaurare lo Stato di diritto in tutto il territorio nazionale per proteggere i diritti e le libertà dei cittadini".
Secondo Ortiz, le minacce da affrontare sono otto: terrorismo, narcotraffico, delinquenza e connessa impunità, traffico di armi, deterioramento del benessere economico, desplacamiento e debolezza istituzionale. L'amministrazione intende affrontare tali minacce con il rafforzamento dell'intelligence, delle forze militari e della polizia, con la protezione delle infrastrutture, con il coinvolgimento dei cittadini in una rete di cooperanti con le forze armate, con l'attivazione di un programma di sicurezza sulle strade e la creazione di zone speciali di riabilitazione e consolidamento (ne sono già state create 2, in territori considerati strategici per il recupero del territorio nazionale).
Il Vice Ministro ha poi fatto presente che per giungere alla compiuta definizione del programma esposto sono necessari alcuni interventi legislativi e, in particolare, una legge di difesa e sicurezza, uno statuto antiterrorismo e una legge sul reclutamento. Inoltre, l'amministrazione intende aumentare di 10mila unità gli effettivi sia dell'esercito sia della polizia, creare 11 nuove brigate mobili e 4 nuovi battaglioni di alta montagna e costituire 10 nuovi nuclei di forze antiterrorismo nelle città. Ortiz ha concluso auspicando che lacomunità internazionale possa e voglia aiutare la Colombia in questo suo sforzo.
Il generale Euclides Sànchez ha quindi illustrato, con dovizia di particolari, i problemi specifici della lotta alla guerriglia e le iniziative assunte in materia dalle Forze armate.
Il generale ha anzitutto fatto presente che la guerriglia e il narcotraffico producono effetti devastanti sull'ecosistema; 1 milione di ettari di foresta vergine sono stati disboscati e sono stati perpetrati 830 attentati all'oleodotto con effetti inquinanti non meno devastanti: 900.000 tonnellate di rifiuti chimici sono stati scaricati nel Rio de Las Cuencas, nel Rio delle Amazzoni e nell'Orinoco, le culture indigene vengono sradicate dal territorio. L'attività delle organizzazioni sovversive copre l'intero percorso del narcotraffico: dal disboscamento alla protezione dei campi, dalla raccolta alla trasformazione e alla commercializzazione. Recentemente sono stati scoperti legami internazionali tra le organizzazioni terroristiche (e in particolare tra le Farc e l'Ira, e pare che queste connessioni abbiano determinato nuove modalità di azione dei terroristi colombiani).
Il coinvolgimento delle Forze armate ("tutte le forze armate sono impegnate nella sicurezza democratica") si spiega su più livelli: sul piano della sicurezza (delle infrastrutture, delle comunicazioni e delle frontiere) e su quello più strettamente operativo (della lotta al narcotraffico, alla guerriglia, alle Auc, alla delinquenza organizzata e a quella comune). La strategia contro il narcotraffico prevede l'obiettivo principale di ridurre del 50 per cento le coltivazioni, la raffinazione e la distribuzione della droga e le forze coinvolte al suo raggiungimento sono per il 15 per cento militari e per il restante 85 per cento civili.
Soffermandosi sui risultati sinora raggiunti nell'anno in corso, il generale Sànchez ha fatto presente che sono stati sequestrati 69.931 chili di droga, distrutti 886 laboratori e recuperati 23.446 ettari; i sequestri di persona sono diminuiti del 66 per cento, gli attentati terroristici del 53 per cento e gli attacchi alla popolazione del 48 per cento.
Come accennato, il generale Sànchez ha particolarmente approfondito la strategia di rafforzamento della cultura dei diritti umani nelle Forze armate - con particolare riguardo al loro rispetto durante la conduzione delle ostilità - sottolineando che anche tramite essa si aumenta la credibilità e la legittimità dei militari. A tal fine, è stato posto in essere un sistema interno che si articola in attività di prevenzione (istruzione, sostegno da parte di consulenti giuridici, diffusione di pubblicazioni), dissuasione (una severa normativa, comprensiva della legislazione internazionale, istituzione di 177 uffici per i diritti umani), controllo (esame dei casi segnalati, coordinamento di questo lavoro con la procuraduria e il Fiscal, ispezioni), integrazione (relazioni interistituzionali con le autorità civili) e premiale (specifici riconoscimenti). Queste attività hanno sinora coinvolto 67.845 militari.
Il generale Sànchez ha poi fatto presente che quella cui è chiamato il suo esercito "è un tipo di guerra unica, che non si può paragonare alle altre", in continua evoluzione, e che l'obiettivo delle Forze armate è quello di "eliminare la volontà di combattimento" dei gruppi illegali.
In conclusione, il generale Sànchez ha auspicato un maggior impegno della comunità internazionale per bloccare l'introduzione in Colombia dei prodotti chimici indispensabili per la raffinazione della droga.
Le possibilità di poter riprendere il processo di pace e lo stato di eventuali negoziati sono stati esaminati nel corso dell'incontro con l'Alto Commissario per la Pace, Lui Carlos Restrepo. Questi, dopo aver ricapitolato i negoziati condotti sotto la Presidenza Pastrana, interrotti il 20 febbraio di quest'anno, ha illustrato la posizione dell'attuale Presidente in materia riassumendola nella formula "forza con delicatezza" (l'Alto Commissario ha anche fatto presente - in riferimento ai rapporti tra impiego della forza militare e soluzione diplomatica, che "l'una via non esclude l'altra").
Restrepo ha sottolineato il ruolo significativo che potrà svolgere la comunità internazionale nel caso in cui si giungerà nuovamente ad un processo negoziale, ipotesi difficile per ora, ma non impossibile atteso che la posizione del Presidente Uribe non è certo di chiusura al riguardo; quello che si vuole è la cessazione della violenza e dell'illegalità. Inoltre, sono in corso contatti per lo scambio di prigionieri, il cui positivo esito potrebbe condurre a ulteriori sviluppi favorevoli al dialogo tra le parti.
Il medesimo tema è stato poi al centro dell'incontro con Monsignor Beniamino Stella, Nunzio Apostolico in Colombia, e Padre Dario Echeverri, Segretario Generale della Comisiòn de Conciliacìon. Quest'ultimo ha dichiarato che la Chiesa rivendica il suo diritto di essere facilitatrice del dialogo tra tutte le parti ed affermato che la Chiesa non crede possa esserci altra via d'uscita se non quella di una soluzione negoziata. La Chiesa ha sempre duramente condannato le pratiche con cui i gruppi in conflitto si autofinanziano e per questo ha avuto numerosi martiri tra le sue fila.
Monsignor Stella ha fatto presente come non tutti gli omicidi di cui sono stati vittime i religiosi possono essere ricondotti a motivazioni politiche ("occorre distinguere caso per caso"). Per quanto concerne il recente rapimento del Vescovo Enrique Jimenez, Presidente del Consiglio Episcopale Latino-americano, Monsignor Stella ha comunicato che, subito dopo il fatto, la famiglia del Vescovo ha "optato subito per la soluzione militare" (il fratello del Vescovo è un colonnello a riposo) e, grazie all'apporto di persone del posto l'intelligence ha potuto disporre di dati precisi che hanno consentito di giungere ad una rapida liberazione di Jimenez.
Tale episodio, peraltro, ha osservato Monsignor Stella, sembra dar corpo ad una sensazione: quella che la guerriglia stia cercando di impossessarsi di esponenti della Chiesa per poterli inserire in un "pacchetto" di scambio di prigionieri.
Padre Echeverri ha quindi svolto un'analisi della mentalità e delle motivazioni dei guerriglieri. A suo dire, il 30 per cento di questi restano profondamente ideologizzati e convinti del significato politico della lotta; il 40 per cento non ha convinzioni ideologica; il restante 30 per cento è rappresentato dai "figli della guerra". Negli ultimi tempi, il profilo ideologico, ha proseguito Echeverri, non ha potuto che diluirsi, per l'inevitabile effetto del volume di denaro che affluisce dal narcotraffico (Padre Echeverri ha raccontato che ormai i soldi non vengono più contati, ma "pesati").
In conclusione del suo intervento, Padre Echeverri ha osservato che un punto di contatto negoziale potrebbe essere rappresentato da riforme sociali e strutturali che soddisfino le istanze della guerriglia.
Anche Monsignor Stella ha ritenuto che la fase attuale sia transitoria e che l'epilogo verso una "tappa politica" vede tutti concordi, e il primo passo potrebbe essere un accordo umanitario dalle evidenti implicazioni politiche.
In conclusione, Monsignor Stella ha rammentato che alcuni sacerdoti hanno aderito alla guerriglia (e in particolare all'ELN) e che la Chiesa è inflessibile nel contrastare la violazione del diritti umani, da qualunque parte provenga.
Il tema del significato attribuito dall'amministrazione Uribe ai diritti umani è stato particolarmente approfondito nel corso dell'incontro della delegazione con il dottor Carlos Franco. Direttore del programma presidenziale per i diritti umani, il quale ha anzitutto precisato che la politica di sicurezza perseguita dai governo "non serra la porta alla mediazione politica".
Franco ha poi sottolineato come l'amministrazione sia fortemente impegnata nella soluzione di drammatici problemi sociali effetto del conflitto incorso da decenni, quali lo sminamento, i desplacados, i bambini coinvolti a vario titolo nelle ostilità, ed ha assicurato che, sempre in tema di diritti umani, "la forza pubblica ha migliorato il comportamento".
Replicando ad alcune richieste di chiarimento dei componenti della delegazione, il dottor Franco ha fatto presente che i detenuti nelle carceri colombiane sono circa 48.000, e che la carcerazione preventiva dura sei mesi, ha ribadito che il governo intende garantire la libertà sindacale ed osservato, al riguardo, che a causa della diffusa intolleranza alcuni vedono il sindacato come un ostacolo, il dottor Franco ha infine fatto presente che nelle recenti elezioni politiche, è stato rinnovato circa il trentacinque per cento dei senatori e 106 sono i nuovi membri del Congresso (su 165).
Sempre sui diritti umani è stato incentrato il colloquio con il Defensor del Pueblo, Eduardo Cifuentes, che ha rammentato come l'istituto del difensore del popolo (cui è anche demandato il gratuito patrocinio) sia stato introdotto dalla Costituzione del 1991 e che, sin dal 1910, l'ordinamento colombiano preveda forme dirette di ricorso per asserite violazioni costituzionali.
Il difensore del popolo, ha proseguito Cifuentes, ha potere di iniziativa legislativa e, pertanto, ha stretti rapporti con i parlamentari. L'ufficio dispone di 450 funzionari (dislocati nel territorio nazionale per strutturare un sistema di "allarme preventivo"; non trattandosi di funzionari giudiziari, tali soggetti hanno la possibilità di assumere materiale probatorio in via del tutto informale e la fondatezza di tale materiale viene successivamente approfondita; qualora gli elementi raccolti siano convincenti dell'avvenuta violazione di diritti, l'Ufficio assume una "risoluzione umanitaria", che viene trasmessa al Fiscal) e di 1.110 avvocati.
Dopo aver sottolineato che l'entrata in vigore della Corte penale internazionale potrà aver un effetto positivo anche in relazione alla tutele dei diritti umani in Colombia, Cifuentes ha lamentato che nei confronti dei desplacados venga svolta una mera politica assistenziale e non un'azione di ricollocamento.
Nel corso del colloquio con i componenti della delegazione, il difensore del popolo ha anche fatto presente che nel corso degli ultimi tre anni sono stati uccisi più di mille sindacalisti; le relative indagini non andate oltre la fase preliminare in nessun caso, e questo ha indotto il suo ufficio a richiedere "più diligenza" alla fiscalia (ossia alla magistratura inquirente, organo dotato di grande discrezionalità - anche in relazione alla frequente rimozione di giudici - e di nomina politica nell'ordinamento colombiano). Ha ricordato che i desplacados non sono profughi che lascino volontariamente le loro case, ma sono costretti dalle Farc con la forza per potere esser liberi di insediare le loro persone di fiducia a controllare il territorio.
Come è stato più volte accennato, la situazione economica della Colombia è di estrema gravità.
Le iniziative con le quali la nuova amministrazione Uribe intende far fronte alla crisi l'economia colombiana e tentare di rilanciare lo sviluppo sono state al centro dell'incontro con il Ministro de Hacienda (ossia il Ministro dell'economia), Roberto Junguito (già Direttore esecutivo del Fondo Monetario internazionale); all'incontro ha partecipato anche il senatore Carlos Garcia, ex presidente del Congreso.
Il Ministro Junguito ha anzitutto sottolineato il particolare momento di complessiva riorganizzazione e ristrutturazione che vive il Paese su impulso delle iniziative presidenziali; momento che sottopone tanto il governo quanto il Parlamento ad uno sforzo molto duro ed intenso (occorre qui segnalare che la Presidenza Uribe ha proposto un vasto programma di riforme che si compendiano in una nutrita serie di iniziative legislative; nei giorni della visita della delegazione, il confronto parlamentare su tali iniziative - che prevedono anche alcune riforme costituzionali - era nel vivo e particolarmente acceso. Le riforme, dopo l'approvazione parlamentare, dovranno essere sottoposte a referendum popolare. In materia, pare opportuno sottolineare che la Presidenza della Repubblica attribuisce particolare rilievo non solo al contenuto delle riforme predette, pur ritenuto essenziale, ma anche alla tempistica di approvazione. In più occasioni, infatti, sia esponenti dell'amministrazione sia lo stesso Presidente Uribe hanno ripetuto alla delegazione che il tempo per cambiare la situazione è scarso - si ricorderà che il quadriennio presidenziale non è rinnovabile - per quanto tale esigenza di procedere speditamente è sembrata suscettibile di creare qualche attrito tra l'esecutivo ed il legislativo).
Il Ministro Junguito ha proseguito facendo presente, in replica ad interventi dei componenti della delegazione, che proprio nei giorni della visita della delegazione il Governo è impegnato nella "negoziazione" della riforma fiscale, pensionistica e, più in generale, dell'impostazione complessiva della politica economica del Paese.
A quest'ultimo riguardo, Junguito ha dichiarato che l'amministrazione intende procedere secondo i canoni e gli strumenti "classici" dell'economia neo-liberista, tramite i quali dovrebbe non solo incrementarsi la crescita dell'economia colombiana, ma anche dare maggiore fiducia al Paese e agli investitori stranieri (mostrando "al mondo che si sta facendo una politica sostenibile nel medio-periodo").
Il senatore Garcia è a questo punto intervenuto per illustrare le ragioni delle difficoltà che incontra l'esecutivo nell'iter di approvazione parlamentare del pacchetto di riforme come sopra proposto.
Garcia ha dapprima rammentato che la composizione delle forze politiche rappresentate in Parlamento non consente di "creare facile unanimismo", per poi far presente che il Fondo Monetario chiede riforme strutturali in materia fiscale, pensionistica (qui il senatore Garcia ha informato la delegazione che il vigente sistema pensionistico copre soltanto il 20 per cento della popolazione ed ha un passivo del 200 per cento) e di riduzione del debito (occorre tener presente che la Colombia è attualmente impegnata in un serrato negoziato con il FMI; tale negoziato dovrebbe concludersi con la stipulazione di una lettera d'intenti e sulla base delle proposte del Fondo, che prevedono la riduzione del deficit dal 4,1 al 2,4 per cento del PIL entro il prossimo esercizio finanziario).
Garcia ha proseguito sottolineando che il pacchetto di riforme proposto dal governo contempla anche interventi sul mercato del lavoro (il 20 per cento della popolazione è senza lavoro ed il 30 per cento si arrangia come può: "lavoro non formalizzato") e facendo presente che nel corso degli ultimi cinque anni non è stata costituita alcuna nuova impresa. Occorre tuttavia intervenire, ha affermato Garcia, perché il livello di corruzione e di evasione fiscale non consentirebbe altrimenti alcuna azione politica.
Il Ministro Junguito ha ripreso la tematica della riforma del sistema pensionistico ribadendo la drammatica situazione del "Seguro social" (assicurazione sociale), determinata anche dalla frammentazione dell'assistenza nelle varie categorie di lavoratori e dalla persistenza di privilegi del tutto ingiustificati. Il governo, ha dichiarato il Ministro, intende abolire questi ultimi (anche incidendo sul livello delle prestazioni; è ad esempio previsto che nessuna pensione potrà essere superiore di venticinque volte il salario minimo, che in Colombia non è certo molto elevato) e unificare le varie forme di assistenza.
A conclusione dell'incontro, il senatore Garcia ha sottolineato l'importanza della cooperazione internazionale per il successo della ristrutturazione del suo Paese e, dopo aver assicurato che la Colombia sta già producendo uno sforzo considerevole (sul versante delle estradizioni dei narcotrafficanti, della confisca dei loro conti e dei loro beni, nelle ispezioni - anche del naviglio nazionale - nell'antiriciclaggio) ha concluso auspicando che gli altri Stati si impegnino nel controllo delle esportazioni dei prodotti chimici che consentono la raffinazione della droga.
Anche in Colombia, come già in Venezuela, la delegazione ha incontrato il Presidente della Repubblica.
Il Presidente della Repubblica Alvaro Uribe ha anzitutto osservato che l'Italia può ben comprendere i problemi della Colombia, essendo passata attraverso esperienze analoghe ed ha poi fatto presente che la sua amministrazione lavora principalmente su "tre assi": la sicurezza democratica, la trasparenza politica, la riattivazione dell'economia su basi di politica sociale.
Il Presidente Uribe ha quindi osservato che la sicurezza è un bene indivisibile ("è per tutti") e fatto presente che per la prima volta da molti anni i sindacati sono vicini al governo.
Uribe ha dichiarato inoltre che la Colombia ha "l'obbligo di avere una forza pubblica": i poliziotti attualmente in servizio sono 75.000, ed in ben 200 comuni non sono presenti; queste assenze sono riempite facilmente dalla guerriglia e dalle AUC. Tale incremento sarebbe però vano senza la collaborazione della popolazione, ha proseguito Uribe, e quindi il governo ha posto in cantiere una "rete di cooperazione"; il tema è controverso, ha osservato il Presidente, che ha tuttavia assicurato che tutto "sarà fatto con trasparenza ed eventuali errori saranno corretti".
Passando a trattare i temi di contenuto economico, il Presidente della Repubblica ha illustrato la pesante situazione dell'economia colombiana (il pagamento del debito estero assorbe il 40 per cento del bilancio; anche per evitare che tale rapporto si accresca ulteriormente l'amministrazione sta cercando di ridurre le spese e al contempo aumentare le entrate) e, dopo aver sottolineato che la collaborazione bilaterale può talvolta essere più proficua di quella svolta in sede multilaterale, ha chiesto la collaborazione dell'Italia per un miglioramento dei rapporti con l'Unione europea (e qui ha pronunciato la frase rammentata al termine della premessa della presente relazione: "non basta essere amici della Spagna") e in relazione a due specifici progetti.
Il primo progetto è relativo al recupero di 150.000 ettari di territorio strappato ai narcotrafficati.
L'amministrazione intende raggiungere un accordo con 50.000 famiglie di contadini affinché possano procedere al rimboschimento del predetto territorio; queste famiglie riceverebbero un compenso/reddito di 2.000 dollari annui. Il Presidente Uribe ha auspicato che l'Italia possa partecipare al finanziamento del progetto provvedendo, anche in parte ed eventualmente prendendo diretto contatto con le famiglie, alla donazione, ed ha assicurato una costante azione di monitoraggio della situazione da parte delle autorità colombiane onde evitare che possano nuovamente impiantarsi colture suscettibili di essere trasformate in droga.
Il secondo progetto è relativo al sostegno finanziario del sistema colombiano delle piccole e medie imprese, con particolare riferimento al settore dell'oreficeria.
L'Italia potrebbe, ha prospettato Uribe, aprire una linea di credito che, peraltro, potrebbe essere utilizzata da parte colombiana per l'acquisto di macchinari e materiale prodotti in Italia, pagamenti di consulenze a tecnici italiani, azioni di marketing.
In conclusione, il Presidente della Repubblica ha fatto presente che lo sforzo di riorganizzazione del Paese deve essere compiuto in breve tempo, altrimenti si rischia la situazione di "anarchia feudale" che ha vissuto il Messico nel terzo decennio del XX secolo; bisogna dunque essere "molto esigenti con le riforme e prudenti con le persone" ed anche svolgere uno "sforzo di pedagogia popolare".
Un altro incontro di particolare rilievo è stato quello con il Ministro degli esteri, Carolina Barco, al quale sono state anche stata illustrate la recente evoluzione della situazione politica italiana e le linee dell'azione internazionale del nostro Paese.
Il Ministro degli esteri ha anzitutto ringraziato l'Italia per la "comprensione" della realtà colombiana di cui ha dato prova anche presso l'Unione europea (si segnala che il Ministro era rientrata il giorno precedente a quello con l'incontro con la delegazione da una missione a Bruxelles nel corso della quale aveva incontrato l'Alto Commissario per la politica europea di difesa e sicurezza, Javier Solana, e il Commissario per le relazioni esterne dell'Unione, Chris Patten) e in sede di G8.
Dopo aver fatto presente che la politica dell'attuale amministrazione colombiana si base su una "visione integrale" basata sul "rafforzamento dello Stato", Barco ha proseguito dichiarando che il governo riserva una speciale attenzione ai sindacalisti e alla loro sicurezza, e quello che accade "non è una persecuzione ma il riflesso di una situazione dolorosa nel Paese".
Ad avviso del Ministro degli esteri, "il problema sociale è quello più importante", e la crisi dell'economia colombiana è un effetto del conflitto che dilania il Paese da decenni.
Barco ha poi ritenuto "molto importante" l'apertura del prossimo mercato unico delle Americhe (ATPA), che a suo avviso potrebbe essere il preludio di qualcosa di simile alla Comunità europea, ed ha evidenziato l'importanza dei negoziati in corso in sede OMC con particolare riferimento all'agricoltura, un settore molto importante per l'economia colombiana e nel quale sarebbe auspicabile la scomparsa dei sussidi che ancora si frappongono alla realizzazione di un vero e proprio libero commercio.
Barco ha infine sottolineato la necessità che i Paesi andini collaborino più strettamente tra loro per promuovere lo sviluppo integrato della Comunità andina, in particolare in materia di infrastrutture, occupazione e commercio e lotta al narcotraffico, un problema che deve cominciare ad essere finalmente inquadrato anche in termini di cooperazione regionale.
La delegazione ha anche svolto un colloquio con alcuni parlamentari colombiani, esponenti di diversi orientamenti politici, incontrando il Presidente dei Senato e del Congresso, Luis Ramos, il Presidente della Camera, William Velez, il Vice Presidente della Camera, Telesforo Pedraza, ed ha partecipato ad una seduta congiunta delle Commissioni esteri e difesa della Camera e del Senato.
Il Presidente Ramos, dopo aver dichiarato di essere molto informato sulla vita politica italiana (il Presidente segue anche con viva attenzione le vicende del nostro campionato di calcio, ed è un appassionato cultore del melodramma italiano) ha illustrato il particolare momento di impegno ("stiamo facendo uno sforzo gigantesco") che vive il Parlamento colombiano per effetto delle iniziative legislative del Presidente della Repubblica (è in corso l'esame di ben 12 progetti di riforma) ed affermato che "la prima cosa da fare è appoggiare la politica del Presidente in materia di ordine pubblico", facendo presente che il Parlamento è "alleato del Presidente" nell'approvare le necessarie riforme.
Ramos ha proseguito facendo osservare che la Presidenza della Repubblica "dovrà spendere il proprio prestigio" sulla strada delle riforme, che, pur essendo necessarie a causa dell'estrema criticità dell'ordine pubblico e dell'economia, presentano alcuni profili da approfondire e valutare con attenzione, in particolare in materia di riforma fiscale (la base fiscale, ha rammentato il Presidente Ramos, è veramente esigua; su 44 milioni di cittadini i contribuenti "importanti" sarebbero 430.000 - "in genere le classi popolari non pagano" - e uno degli obiettivi della riforma sarebbe appunto quello di ampliare la base dei contribuenti ad almeno 2 milioni) e pensionistica.
Secondo Ramos, le Farc avevano "ambasciatori" in Europa che "distorcevano quello che succedeva, ma ora l'Europa ha riconosciuto che è (le Farc) un gruppo terrorista e legato al narcotraffico".
Soffermandosi sugli scenari ipotizzabili per poter risolvere il problema della guerriglia, Ramos ha fatto tuttavia presente che è in esame la possibilità di autorizzare negoziati ("stiamo cercando di approvare una legge per concedere la possibilità di negoziare per quattro anni") e prospettare possibili soluzioni politiche ("facoltà che nelle domande contenute nel prossimo referendum ci possa essere quella di assegnare posti al Congresso al gruppi guerriglieri con i quali si possa raggiungere qualche accordo"). L'attuale situazione, ha rammentato Ramos, vede la possibilità
di uno scambio umanitario ed una possibile mediazione delle Nazioni Unite, alla quale le Farc non paiono però molto favorevoli.
In conclusione, il Presidente Ramos ha fatto presente che il sistema bicamerale "funziona bene" da 150 anni, pur non piacendo al Presidente (che avrebbe preferito un sistema monocamerale, ma "è stato sconfitto" sulla base di un compromesso che prevede il mantenimento del bicameralismo a fronte di una riduzione del numero dei parlamentari). Il lavoro parlamentare è organizzato su due sessioni (dal 20 luglio al 16 dicembre e dal 16 marzo al 16 giugno) ma il Presidente può convocare sedute straordinarie; non è previsto un vero e proprio Statuto dell'opposizione, anche se sono allo studio alcune nuove regole in materia.
Il Vice Presidente della Camera, Telesforo Pedraza, ha sottolineato il rilievo di un continuo scambio di informazioni fra Parlamenti ("in nessun altro luogo è così rappresentata l'opinione nazionale") e posto in evidenza che questo appare tanto più necessario da parte colombiana in un momento in cui il suo Paese vive una fase di profonda trasformazione.
Il Vice Presidente Pedraza ha inoltre rammentato il profondo influsso della cultura italiana sullo sviluppo di quella colombiana, soffermandosi particolarmente sugli insegnamenti della scuola penalistica fiorita nel nostro Paese tra il XIX e il XX secolo.
Nel corso dell'incontro con le Commissioni esteri e difesa è emersa una generalizzata richiesta di maggior attenzione da parte della comunità internazionale nei confronti della Colombia (il deputato Gomes ha sollecitato maggiori agevolazioni favorire i prodotti colombiani, il deputato Dias ha fatto presente che anche la cooperazione multilaterale potrebbe essere più efficace; in ambito bilaterale, Dias ha rammentato che sono in corso contatti con l'amministrazione italiana per il recupero scolastico dei bambini e dei giovani che nella sua regione - e si tratta di una cifra ragguardevole: 90.000 unità - non ricevono alcuna istruzione), accanto alla piena coscienza che la difficile situazione del Paese rende l'approccio problematico (per il deputato Velasquez è necessario un previo "pieno appoggio per la stabilizzazione del Paese").
È altresì emersa la differenza delle posizioni politiche in ordine alle proposte di riforma avanzate dall'amministrazione Uribe.
Il deputato Sarate ha rammentato che il Polo democratico ha presentato un altro programma, in quanto le vere radici del problema sono nelle ingiustizie sociali che hanno portato ad una democrazia malata. Secondo Sarate bisogna giungere ad una soluzione politica del conflitto, ad una distribuzione equa delle risorse e ad una profonda trasformazione della vita politica.
Il deputato Velez ha fatto presente che i liberali mantengono un atteggiamento di "collaborazione costruttiva" con il Presidente Uribe, ma nutrono "forti dubbi" sulla politica economica del governo. Velez, dopo aver rammentato che Uribe proviene dal partito liberale pur essendo stato eletto come indipendente, ha fatto presente che tra qualche tempo ci sarà un'assise delle forze liberali anche per valutare quale atteggiamento potrà assumere il Presidente della Repubblica in relazione al gruppo dal quale proviene.
Il deputato Velez, nel corso di un'ulteriore incontro della delegazione con esponenti dei partiti politici, ha rammentato che le formazioni politiche colombiane sono "le più antiche del mondo"; questa particolarità si riflette sulla loro attuale identità in quanto, ad esempio, i partiti colombiani non hanno statuto, personalità giuridica, stabile organizzazione (sono "partiti d'opinione senza strutture territoriali") e sono "integrati da gente molto diversa". Velez ha evidenziato che l'originaria differenza tra conservatori e liberali era l'atteggiamento verso la Chiesa, ma ha altresì osservato che, col passare del tempo, anche questa differenza si è di molto stemperata per cui "è difficile a volta distinguere le posizioni", anche se si può dire che il partito liberale "tende verso la democrazia sociale".
Sempre secondo Velez, la disparità di reddito produce scarsa mobilità sociale, anche se, per favorire l'integrazione razziale (la popolazione colombiana è molto composita: indios, discendenti degli schiavi neri e dei colonizzatori spagnoli, immigrati più o meno recenti) sono state approvate apposite normative e previste circoscrizioni elettorali riservate per garantire la rappresentatività delle minoranze (anche se la validità di tale normativa è stata contestata da più parti; per alcuni si tratterebbe di una forma di ghettittazione).
La delegazione ha anche svolto incontri con rappresentati delle istituzioni locali. In particolare, ha incontrato il Sindaco di Bogotà, Antanas Mockus, ed il Governatore del Dipartimento di Cundinamarca, Alvaro Cruz.
Il sindaco di Bogotà ha anzitutto fatto presente che nella sua città il numero degli omicidi è stato molto ridotto negli ultimi cinque anni (da 4.500 a 2.000 annui; per quanto la cifra assoluta può comunque lasciare sgomenti, occorre rammentare che la media degli omicidi nella città di Bogotà - 1/100.000 - è molto inferiore a quella nazionale), grazie ad uno specifico lavoro sui fattori di rischio (alcol, possesso di armi, violenze familiari). La città è divisa in venti "località", ognuna delle quali con un proprio commissariato, e sono stati recentemente istituiti più centri di conciliazione, nei quali lavora personale specificamente addestrato alla mediazione e risoluzione dei conflitti. Il comune, inoltre, promuove delle "giornate per il disarmo".
Proseguendo nell'illustrazione delle iniziative poste in essere dalla sua amministrazione, il sindaco Mockus ha rammentato che, dopo lunghi anni, il problema del trasporto pubblico è stato risolto con la "Transmilenio", un sistema che ogni giorno trasporta 76.000 cittadini e che è la "soluzione ottima" per Paesi che hanno un reddito paragonabile a quello della Colombia. Inoltre la città ha fatto grandi passi in avanti nella "cultura della legalità", specie sul fondamentale terreno della relazione con la legge tipica - ad avviso del Sindaco - dei colombiani; questi ultimi, infatti, sono favorevoli alla democrazia ed alle sue istituzioni, ma non avrebbero una relazione democratica con la legge (ossia: che le regole da applicare siano quelle approvate da un organo democraticamente eletto).
Nella città di Bogotà l'obbligo scolastico è rispettato dal 96 per cento ed il Comune ha in essere con la città di Roma un accordo di cooperazione - già operativo - in materia di assistenza sociale e sono in corso contatti per la conclusione di un analogo accordo con la città di Milano.
Il sindaco ha infine fatto presente che la competenza sulle decisioni relative all'utilizzazione di un terzo della parte flessibile del bilancio della città sono demandate alle comunità locali e, quindi, parte dei problemi sono gestiti ad un livello a diretto contatto con la popolazione, con ciò anche incrementando la cultura della democrazia.
Il Governatore del Dipartimento di Cundinamarca, Alvaro Cruz ha dapprima fatto presente che il suo Dipartimento (Cundinamarca si estende intorno all'area della capitale, che tuttavia non ricomprende amministrativamente) ha all'incirca la stessa estensione del Costarica, comprende 106 municipi e produce quasi il 30 per cento del PIL colombiano. Il Governatore ha anche rappresentato i più significativi progetti di sviluppo oggi allo studio per lo sviluppo della regione, tra i quali un nuovo sistema di ampliamento della rete di trasporti, la possibilità di includere in tale rete ampi tratti del Rio Magdalena e l'incremento dell'offerta turistica.
Sempre con riferimento alla costruzione di infrastrutture, la delegazione ha appreso nel corso di un incontro con il Ministro dei trasporti Andres Gallego, che alcuni progetti in tema di navigazione fluviale, vie di comunicazione, viadotti e nel settore dell'energia, potrebbero offrire profili di interesse per le imprese italiane.
Il tema delle possibilità offerte dalla Colombia alle imprese italiane è stato approfondito anche nel corso dell'incontro della delegazione con la Giunta della Camera di commercio italiana per la Colombia, istituita nel 1956, con competenza sull'area andina oltre che Costarica e Santo Domingo ed operante in tre settori: alleanze strategiche, ufficio progetti, cura dei soci ed informazione.
Gli esponenti della Giunta si sono detti convinti che l'entrata in vigore dell'accordo ATPA sarà di grande importanza per l'area andina, situata tra i Paesi del Mercosur e i Paesi Nafta, e che la Colombia, in particolare, pur essendo un mercato problematico offre numerose possibilità, tanto che lo scopo dell'attività dell'ente è non solo quello di sviluppare il commercio italo-colombiano ma anche convincere gli imprenditori ad insediarsi stabilmente nel Paese. Si è altresì sottolineato come questo momento di riorganizzazione del Paese andino sia molto importante per il futuro delle relazioni italo-colombiane, e che una qualificata presenza in questo periodo potrebbe preludere a significativi sviluppi dell'interscambio in futuro.
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Missione a Bruxelles in occasione della riunione delle Commissioni affari esteri e difesa del Parlamento dell'Unione europea (26 novembre 2002)
Si è svolta a Bruxelles il 26 novembre scorso la riunione delle Commissioni affari esteri e difesa dei Paesi membri dell'Unione europea. La delegazione della Camera dei deputati, composta dai deputati Lavagnini, Minniti, Rivolta, Spini, ha preso parte all'incontro previsto per la mattina del 26 con il Commissario europeo per le relazioni esterne, Chris Patten.
Nel corso di quest'incontro il Commissario Patten ha anzitutto fornito i principali dati relativi agli aiuti che l'Unione europea sta devolvendo all'Afghanistan e che il governo del Presidente Karzai utilizzerà per la ricostruzione del Paese, sottolineando la necessità, rilevata anche da alcuni interventi, che il dialogo politico fra l'Unione europea e l'Afghanistan sia tale da favorire una rapida ed effettiva transizione verso un sistema democratico. Il Commissario ha anche precisato che il Governo transitorio si sta efficacemente adoperando per la riconversione delle colture di oppio ed ha inoltre ribadito l'importanza di mantenere contatti continui con le ONG operanti in loco e di rafforzare i legami commerciali fra l'Unione e l'Afghanistan.
Dopo un accenno alla situazione delle donne afghane, il Commissario Patten ha poi riferito sul tema degli aiuti che l'Unione europea destina all'Autorità Nazionale Palestinese. In particolare, alla proposta di alcuni deputati europei di istituire in seno al Parlamento europeo una commissione d'inchiesta sui fondi destinati all'ANP, il Commissario ha risposto dichiarandosi contrario ad una siffatta ipotesi, sia perché comporterebbe il blocco automatico degli aiuti, sia perché sull'utilizzo di tali fondi l'Autorità palestinese fornisce maggiori informazioni e dati dì quelli richiesti dall'Unione europea.
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